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Scenari della Decorazione contemporanea

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Formatosi come pittore all'Accademia di Belle Arti di Brera, Alberto Goglio (Brescia 1967) è docente di Decorazione all'Accademia di Belle Arti di Verona. L'attività pittorica è testimoniata da numerose mostre personali e collettive, sia in Italia che all’estero. Nello specifico campo della decorazione, Goglio unisce la progettazione di interventi - spesso di notevole complessità - in spazi pubblici, ad una lucida riflessione teorica. Il testo che qui pubblichiamo, Scenari della Decorazione contemporanea, è uscito nel 2015 sul blog Research & Theories/LABA, e come tale è reperibile al seguente link: http://www.research-theories.eu/labadesign/?p=328&lang=it. Esso prende in esame i problemi che la didattica e la pratica della decorazione devono oggi affrontare, per potersi positivamente confrontare con l'universo della referenzialità (e quindi del simbolo, dell'allegoria, della narrazione), dopo che l'aniconismo che ha permeato la cultura artistica del secolo XX ne ha messo a dura prova i presupposti. Un vivo ringraziamento ad Alberto Goglio per averci autorizzato a pubblicare il suo scritto. Le immagini che corredano il testo sono il frutto di una scelta redazionale.

Nella sua accezione storica, la Decorazione è l’interazione tra arte ed architettura. Questa definizione, apparentemente univoca, è in realtà una sintesi di esperienze e tradizioni assai diverse che comprende tanto il repertorio ornamentale, parte più o meno accessoria del linguaggio architettonico, quanto l’opera d’arte realizzata da un artista con lo scopo di sovrapporre alla forma architettonica una narrazione.

Il complesso rapporto che la Decorazione intesse con la modernità ci consegna oggi una disciplina la cui area di interesse si è estesa considerevolmente ma, proprio per questo, ha bisogno di essere sostanzialmente ridefinita. Tutto questo senza tracciare confini netti che sarebbero anacronistici. Si tratta piuttosto di individuare in un groviglio stimoli e istanze spesso contrastanti, una trama di relazioni in grado di delineare uno scenario articolato ma coerente.

Rispetto alla tradizione della Decorazione storica, possiamo ravvisare alcuni elementi di discontinuità, su due livelli distinti. In primo luogo, dopo le avanguardie, l’interazione tra arte ed architettura ha subito una profonda mutazione, dovuta agli esiti di una ricerca artistica intransigente, unita al ripensamento della funzione sociale dell’artista in un contesto radicalmente cambiato. Su un piano diverso, una parte consistente della Decorazione contemporanea non vede nell’architettura il suo naturale riferimento ma cerca piuttosto una relazione con lo spazio urbano, inteso come scenario complesso di cui la disciplina architettonica non è che una componente marginale.

Victor Vasarely, Omaggio a Malevič, 1954, ceramica, Caracas, Universidad Central del Venezuela.

La deriva formalista che ha caratterizzato la nascita dell’arte moderna ha alleggerito la pittura e la scultura di quella componente letteraria e narrativa che ha contraddistinto buona parte dell’arte ottocentesca. Questo processo, a cui non è estranea la riflessione teorica sulla forma ornamentale sviluppatasi nella seconda metà del diciannovesimo secolo, ha un’influenza diretta anche sugli orientamenti che l’architettura moderna assumerà nel novecento. Un’arte che trova la sua giustificazione primaria nella sperimentazione linguistica, privilegiando la forma sul contenuto ha come esito la produzione di opere che reclamano la loro esistenza come oggetti concreti. Più in generale, il binomio arte e vita, uno dei nodi attorno a cui si è sviluppata l’esperienza delle avanguardie, vede nella convergenza con l’architettura uno sbocco naturale. La parabola del neoplasticismo è però sintomatica di quanto sia velleitario questo sconfinamento. Un’arte che vuole scendere dal suo piedistallo estetico con l’obiettivo di estendere il suo dominio alla realtà, si limita a fornire un repertorio di ricerche formali ad uso dell’architettura moderna che in quegli anni sta definendo un linguaggio coerente con i presupposti funzionalisti che la animano, superando allo stesso tempo le istanze espressioniste post-belliche e il culto della nudità ingegneristica.

Negli anni recenti, lo scenario non è sostanzialmente cambiato. L’epoca della spettacolarizzazione dell’architettura, ultima declinazione del Less is bore, trova un preciso riferimento nell’arte che si è aperta alla sperimentazione formale, fatta di gesti plastici astratti, che ha esteso il suo interesse oltre le tecniche consuete per aprirsi alle evidenze espressive della materia. Essa costituisce un repertorio di esperienze sterminato a cui attingere per un’architettura che vuole definitivamente emanciparsi dal puritanesimo funzionalista.

Anthony Caro, Monsoon Drift, 1975, acciaio Corten, Washington, Hirshhorn Museum and Sculpture Garden.

L’utilizzo di tecniche e rivestimenti che enfatizzano il carattere materico delle superfici risolvendo al contempo il problema dell’introduzione del colore in architettura è in questo senso emblematico. Pensiamo per esempio all’uso massiccio dell’acciaio Corten nell’architettura contemporanea. Non sarebbe immaginabile l’utilizzo di lastre di metallo arrugginito per rivestire un edificio senza il riferimento estetico di un‘arte che ha ridefinito in maniera sostanziale i paradigmi della bellezza. Ignorato dalla grande architettura per più di mezzo secolo (il Corten è stato brevettato dalla United States Steel Corporation nel 1933), esso è divenuto l’ornamento privilegiato e più autentico di un’architettura realmente post-moderna, in quanto post-industriale, solo dopo che la scultura ne ha evidenziato le potenzialità espressive.

In sintesi, l’analisi sistematica della struttura ornamentale (Owen Jones) e l’associazione tra la pulsione vitale e il ritmo ornamentale (Ruskin), due aspetti complementari della riflessione teorica ottocentesca sull’ornamento, costituiscono il retroterra culturale da cui discende la contrapposizione, che caratterizza l’arte del ventesimo secolo, tra l’atteggiamento analitico-razionalista e il vitalismo espressionista. A sua volta, come un cerchio che si chiude, la molteplicità di esperienze e di sperimentazioni patrimonio dell’arte del novecento diviene, in potenza, materiale per la creazione dell’ornamento architettonico contemporaneo, all’interno di un processo compositivo che, nei casi più estremi, non si realizza in analogia con la propria tradizione ma in relazione a tali esperienze.

Nel frattempo, la Decorazione allegorica ha trovato a fatica uno spazio all’interno della modernità, proprio per lo spostamento del baricentro dal significato alla forma, avvenuto nell’arte dei primi decenni del novecento, e la sostanziale iconoclastia del razionalismo che, in ultima analisi, è una manifestazione di questo mutato equilibrio. In realtà, il programma razionalista, autosufficiente, ha al suo interno una forma compiuta di narrazione, enfatizzata dalle ampie superfici vetrate, in cui viene implicitamente messa in scena l’etica della vita moderna, senza mediazioni espressive, perfetta raffigurazione reale (potremmo dire performativa) di un’umanità finalmente liberata dalle incongruenze del passato grazie alla “macchina per abitare”.

Philip Johnson, Glass House, 1949, New Canaan, Connecticut.

D’altro canto, l’egemonia culturale del funzionalismo ha inciso nell’aspetto della città moderna assai meno di quanto i suoi pionieri avevano previsto. Essa deve fare i conti con la diffusione chiassosa e pervasiva dell’immagine pubblicitaria, visione urbana antitetica alla mistica architettonica che si riconosce nella metafora lecorbusieriana del “gioco magnifico, sapiente e rigoroso dei volumi sotto la luce”, espressione del classicismo latente che caratterizza l’architettura razionalista.

La Decorazione è sembrata quasi schiacciata tra queste due forme opposte di “iperrealismo decorativo”, la narrazione reale inquadrata dalla nuova architettura e la proliferazione incontrollata dell’iconografia pubblicitaria, espressioni complementari del moderno. Nel migliore dei casi essa è apparsa negli ultimi decenni come la manifestazione di una voluttà pauperistica, in evidente contraddizione con la sua tradizione. Quella che un tempo era lo strumento auto-celebrativo di una committenza desiderosa di mostrare la sua grandezza, è divenuta espressione dal basso, che non di rado ha occupato lo spazio in maniera polemica, quasi compiaciuta del suo anacronismo; espressione privilegiata di un produttore artigianale di immagini che si inserisce nel tessuto pulsante e contraddittorio della città contemporanea.

Tuttavia, tanto l’estetica pubblicitaria quanto la vita reale, enucleata dalla cornice architettonica per assumere i contorni e le strategie caratteristiche dell’arte relazionale, concorrono ad ampliare tecniche e modalità operative attraverso le quali la Decorazione contemporanea si esprime. Tale dimensione, lontana dall’architettura quanto quest’ultima sembra essere distante dalle istanze sociali di cui all’inizio del ventesimo secolo voleva farsi interprete, ha posto la Decorazione (in particolare quel tipo di decorazione il cui intento è veicolare messaggi e significati precisi) al di fuori della relazione con il linguaggio architettonico contemporaneo e l’ha avvicinata piuttosto agli spazi interstiziali della città, le sue cicatrici e le contraddizioni di cui esse sono espressione.

Claudio Cintoli, Il giardino di Ursula, 1964-65, sequenza di sei pannelli murali per la discoteca Piper di Roma (distrutto).

Perciò, se è tramontato l’ideale della “grande opera moderna”, espressione di quella sintesi delle arti che, cercata o negata con forza, ha costituito un leitmotif della cultura figurativa della prima metà del novecento, la decorazione contemporanea si apre alla possibile creazione di piccole e grandi opere artistiche a scala urbana, al di fuori del paradigma che postula la disciplina architettonica come mediatrice privilegiata tra l’arte e il suo inserimento in uno spazio definito. In questo ambito operano gli artisti il cui lavoro ha come premessa una forte relazione con lo spazio ma anche quegli artisti che trovano una giustificazione al loro operare nella ricerca di una relazione con le persone più che con i muri o, per meglio dire, che partono dal presupposto che uno spazio sia prevalentemente definito dagli esseri umani che lo abitano.

Sull’altro versante, il tema del rapporto fra immagine, narrazione e architettura, al di là delle facciate-schermo, in cui il programma progettuale solitamente non prevede il controllo sui contenuti che verranno veicolati, vede l’architetto riluttante ad operare sconfinamenti nel terreno insidioso della narrazione vera e propria, anche quando l’epidermide avvolgente e continua, ottenuta attraverso l’opacità dei materiali e delle textures, rende impermeabile gli edifici a quella forma di racconto che abbiamo attribuito alla trasparenza delle superfici vetrate.

Eppure, nella relazione tra arte e spazio urbano, le strategie comunicative della pubblicità (stimoli visivi aggressivi e sovradimensionati che si elevano al di sopra del rumore di fondo della città contemporanea) sono utilizzate per scopi opposti a quelli per cui sono nate, in maniera non dissimile da quanto profetizzarono Robert Venturi e Denise Scott Brown nel libro Imparare da Las Vegas a proposito della reintroduzione nell’architettura del patrimonio di simboli e narrazioni a cui la modernità sembrava aver rinunciato. Tuttavia, di Las Vegas, la generazione degli architetti che ha fatto riferimento al celebre saggio di Venturi e Scott Brown per liberarsi dal manierismo funzionalista, ha colto solo gli aspetti più legati al lessico architettonico (riesumando in chiave più o meno kitsch l’ornamento classico). Si tratta di una rimozione comprensibile. Non è casuale che Venturi e Scott Brown, per esemplificare le loro teorie, si cimentino astrattamente in un edificio per il quale è a disposizione un repertorio di moderne immagini eroiche e celebrative praticamente illimitato: la Hall of Fame del football americano.

Robert Venturi/Denise Scott Brown Associates, National Football Hall of Fame, 1967 (non realizzato, qui in due fotografie del modello in scala).

L’utilizzo di questo ready made iconografico non è altro che la trasposizione dalla forma ornamentale alla decorazione allegorica della mutata relazione tra arte ed architettura, in cui la prima costituisce un repertorio di esperienze a cui attingere per la seconda. Un paradigma da cui non è facile emanciparsi.

Tralasciando l’ipertrofia neo-barocca che caratterizza alcuni esempi recenti, è in questo senso significativo che la reintroduzione delle immagini sulla “parete nuda” dell’architettura avvenga sul piano dell’iconografia di consumo, confermando l’egemonia dell’estetica commerciale, mediata però attraverso la dimensione autoriale del cliché warholiano. La reiterazione ossessiva di una stessa immagine fotografica determina una progressiva perdita del significato dell’immagine riprodotta, esattamente come, nei giochi infantili, la ripetizione continua di una stessa parola in breve tempo ne annulla completamente il senso. Nell’opera di Warhol, questa perdita di significato ha delle evidenti implicazioni concettuali che solo in parte mascherano le altrettanto evidenti qualità ornamentali delle sue composizioni. Una volta trasposta la stessa modalità operativa nell’ambito architettonico, tali qualità diventano inequivocabili, quasi ad esorcizzare sul nascere ogni possibile deriva simbolica che l’immagine utilizzata porta con sé. Sotto questa luce, la metafora più efficace sembra essere quella di una Decorazione allo stato embrionale, situata in un territorio indefinibile, in qualche modo sospesa tra la manifestazione tangibile di una coscienza e l’essere un’aggregazione vitale di cellule disposte secondo un ordine coerente.

È naturale però che proprio su questo terreno si delineino i presupposti di un possibile ricomporsi, con nuove cifre espressive, del rapporto dialettico tra i due atti compositivi, l’uno legato all’architettura e l’altro all’intervento artistico. Questa “manifestazione tangibile di una coscienza”, acquista senso e profondità grazie al contributo della riflessione concettuale che l’artista, in misura maggiore rispetto all’architetto, è in grado di esprimere. Un contributo in grado di marcare la differenza tra un apparato decorativo consustanziale alla forma architettonica ed uno superficiale e intercambiabile, del tutto simile, nella sua relazione con l’edificio, a quello che fu espressione dell’eclettismo ottocentesco.

La strada tracciata dal movimento moderno ha avuto inizio con la reazione all’arbitrarietà ampollosa ed inconcludente di quel periodo. L’ostracismo subito dal termine “decorazione” per buona parte del ventesimo secolo è frutto di un malinteso che ne interpreta l’essenza come espressione di questa arbitrarietà. Restituire alla Decorazione la sua dimensione culturale più ampia, significa accrescere la comprensione di ciò che stiamo vivendo e cercare di condizionarne gli esiti, al di là delle mode effimere e delle cicliche oscillazioni del gusto che proclamano da tempo un generico “ritorno alla decorazione”.

In alto: Alberto Goglio, Ascensore, 2013, olio su tavola, cm. 65 x 140 (www.albertogoglio.com). Sotto: copertine della prima edizione americana (1972) e dell'edizione italiana (2010) del libro di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour "Learning from Las Vegas".

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