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Il pavimento della basilica di San Marco a Venezia

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Il perché di una ricerca

Ci sono opere d’arte, come il Partenone o la Cappella Sistina, che per la loro pregnanza culturale sono state elevate a simbolo di intere civiltà. Il pavimento della Basilica di San Marco a Venezia dovrebbe essere annoverato fra queste, ma così paradossalmente non è. La sua complessità ha sempre colpito i visitatori, ma l’impossibilità di coglierne il disegno d’insieme a causa dell’enorme estensione orizzontale e del buio dell’ambiente, hanno fatto sì che l’attenzione si sia poi spostata sempre verso l’aurea copertura. Eppure è nei motivi del pavimento, non nelle stralunate figure del soffitto che si nasconde l’essenza di una intera civiltà, da noi liquidata superficialmente come “medioevale”.

Suppergiù questi erano i pensieri di un giovane studente al primo anno del Liceo Artistico, che in un nebbioso mattino di un lontano novembre del 1976 si stava recando alla basilica marciana, munito di blocco e penna comprati per l’occasione e determinato a cogliere l’essenza di tali motivi. La mezz’ora che segui, perché tanto bastò, è ancora ricordata da un esperto ornatista come la più cocente frustrazione giovanile. Non che fosse difficile copiare quei motivi – in fondo si trattava di quadratini – ma più ci si intestardiva a capirne la legge compositiva, più il mistero si faceva fitto. Il destino, spesso cinico e baro, concede a volte una seconda opportunità, e una recente pubblicazione a più voci, voluta dalla Procuratoria e dedicata al restauro del pavimento marciano, Il manto di pietra della basilica di San Marco a Venezia, fornisce il pretesto per raccogliere nuovamente la sfida 〈1〉. Su tale traccia tentiamo perciò una nuova ricognizione sui motivi ornatistici del pavimento di San Marco.

Oltre alla questione personale, a muoverci in questa impresa è anche la presa d’atto della totale incomprensione, da parte dei contemporanei, proprio dell’essenza di tali motivi. Incomprensione ben testimoniata dalla mancanza di un saggio specifico all’interno del libro di cui sopra, pur in presenza di interventi notevoli su altri aspetti della questione. Monumentale è la relazione del geologo Lorenzo Lazzarini sui marmi impiegati; esaustiva è l’esplicazione delle simbologie presenti nel disegno generale, ad opera di Raffaele Paier. In verità vi è anche il tentativo di dare conto dell’aspetto compositivo, ma la figura coinvolta, il matematico Michele Emmer, non avendo competenze ornatistiche, non va oltre semplici frasi fatte e luoghi comuni. Stupisce in questo caso che la decodifica non sia stata affidata ad un ornatista specializzato e che, pur cogliendosi l’essenza geometrica dei motivi, si sia pensato che la loro chiave interpretativa andasse individuata nella matematica.

Premesso questo, per avviare la nostra ricerca dobbiamo innanzi tutto chiederci se i singoli disegni corrispondano ancora a quelli originali. Fatta eccezione per alcune parti palesemente rifatte, la risposta sembrerebbe affermativa. Lazzarini ci avverte però che, sebbene gli storici non nutrano dubbi sul mantenimento del disegno originario, si stima che circa l’ottanta per cento dei marmi siano stati sostituiti nei secoli. In primo luogo, ciò ha determinato una variazione dei colori dovuta alla difficoltà di reperire i marmi originari; in secondo luogo, l’operazione di sostituzione (che implica sempre un allargamento delle connessure) ha generato un complessivo effetto “sgranato” su motivi che si supponevano perfettamente connessi in origine, alterandone in parte anche le proporzioni. Si può quindi affermare che a noi oggi è dato cogliere appieno solo la capacità inventiva dei maestri di San Marco, mentre la loro sensibilità estetica e cromatica ci sfugge in gran parte.

Il passo successivo è capire chi  ha fatto cosa. Della fabbrica marciana si sa ben poco, ma si stima che la realizzazione del pavimento sia anteriore al 1070. Per analogia con la cantieristica delle cattedrali successive, possiamo ipotizzare l’esistenza di un Proto, cioè un architetto capo responsabile della progettazione d’insieme, da cui dipendevano i capimastri governanti le diverse filiere dei vari settori costruttivi. Su questa base, la stupefacente complessità dei singoli motivi pavimentali porta a immaginare il loro autore come figura diversa non solo dal Proto e dai maestri mosaicisti delle figurazioni delle volte, ma probabilmente anche dagli esecutori materiali del taglio e della posa dei pezzi stessi. Fa supporre cioè, per dirla in termini moderni, una sorta di “ufficio tecnico” specializzato nella progettazione dei disegni e nello sviluppo della conseguente, notevole mole di ausili esecutivi, ossia dime, maschere di taglio, piani di posa, eccetera.

Il mito romantico vorrebbe farci immaginare un solitario Maestro di San Marco inginocchiato sul buio pavimento a comporre un mosaico già tutto chiaro nella sua mente. Nella realtà, invece, è lecito supporre che i motivi più complessi siano stati ideati da diversi maestri e forse in epoche diverse (così come le varie linee logiche seguite potrebbero suggerire), successivamente composti in un laboratorio attrezzato, infine messi in opera incollati su tela o, come si suppone per i pavimenti romani, su lastre di gesso poi rimosse. Alcuni allineamenti sospetti nel rivestimento aureo portano a supporre che lo steso metodo indiretto fosse usato anche per i mosaici delle volte. Rimane il dubbio su chi possa aver ideato il piano complessivo del pavimento, le cui simbologie sono ben descritte da Raffaele Paier. Facoltà, questa, pertinente sicuramente al Proto, ma ascrivibile anche a un Maestro pavimentista, come pure ad un terza figura, anche se ai fini della nostra ricerca tale questione è marginale.

Data l’immensità del campo di indagine, in questa prima ricognizione è necessario focalizzare l’analisi su un oggetto ben preciso, per evitare di perdersi. Abbiamo perciò ignorato le stupefacenti rotae perché necessitano di una indagine ad hoc, che ci riserviamo di fare in seguito. Abbiamo anche ignorato i motivi fitomorfi e zoomorfi, perché, come i precedenti, pertinenti ad un’altra linea di ricerca. Il nostro interesse si è perciò focalizzato solo sull’individuazione dei pattern specificatamente progettati per i motivi di riempimento.

Abbiamo puntato cioè a individuare l’unitaria legge compositiva a monte dei vari motivi ottenuti, a valle, con la semplice modifica dei colori dei marmi (per esempio, il quadrato affiancato al rombo ricorre con vari colori in tutto il pavimento, ma il pattern è il medesimo), ignorando, salvo casi eccezionali, sia i motivi ottenuti solo con la modifica in positivo-negativo del colore dei marmi, sia quelli ottenuti solo con la giustapposizione delle loro venature (è il caso dell’immenso “mare” centrale). Nella ricerca di ciascun pattern, cioè dell’insieme dei segni necessari a comporre il motivo, probabilmente si è fatta una forzatura, perché, trattandosi di tasselli musivi, è probabile che il punto di partenza progettuale fosse la griglia e non il singolo modulo. Abbiamo tuttavia ritenuto che una nozione concettualmente moderna come quella di “pattern”, fosse comunque utile a decifrare le singole logiche compositive.

Sacre geometrie

Dopo aver definito il campo della nostra ricognizione sui motivi ornatistici del pavimento della Basilica di San Marco, cerchiamo di dare conto, nei limiti consentiti in questa sede, di cosa tale ricerca abbia fin qui prodotto. Colpisce innanzi tutto la quantità dei pattern: allo stato abbiamo schedato centosette pattern originari 〈2〉. Quindi i motivi da essi generati sono molti di più, ma ad interessarci non è la loro precisa rendicontazione, bensì le strutture ornatistiche ad essi sottese. Già da questa prima schedatura, infatti, risulta che i pattern insistono su alcune linee compositive generali, linee che cercheremo ora di esplicare.

La maggior parte di essi nasce dal canonico modulo quadrato ed insiste su composizioni triangolari – tipiche di quella fase storica – risultanti dalle divisioni interne di tale modulo. Tuttavia, dire questo è come dichiarare che Michelangelo, per scolpire la Pietà, ha preso a modello la figura umana: l’affermazione è vera, ma non rende minimamente il senso delle difficoltà affrontate. Confrontare il motivo finale col pattern necessario a comporlo e tale pattern con il modulo quadrato iniziale, ricostruendo la successione logica delle scelte fatte dall’anonimo artista, genera spesso un senso di vertigine per l’inusitata invenzione che si ha di fronte.

Sono esemplari in tal senso i casi in cui il quadrato viene espanso fino a formare un comodo ottagono irregolare, ottenuto ribaltandone le divisioni interne. Su questa base pseudo-ottagonale sono stati costruiti il maggior numero di motivi presenti come riempimento, motivi che potremmo definire “a ottagoni intrecciati”.

L’ottagono è però presente anche in forma regolare: in questa chiave, spicca il caso della rilettura del precedente motivo intrecciato, con il risultato di conferire al tutto una maggiore eleganza proporzionale. Superlativi sono inoltre i motivi ottenuti con l’inserimento di triangoli equilateri nell’ottagono regolare. Il modulo quadrato è comunque, per così dire, il “marchio di fabbrica” distintivo delle invenzioni marciane, canonico nella sua essenza e declinato in innumerevoli casi diversi.

Il triangolo equilatero, spesso reperibile come figura di completamento, si presenta anche come modulo-base generante la caratteristica griglia “a diamante” consistente in due triangoli equilateri affiancati. In alcuni casi essa serve a comporre effetti trompe l’oeil prospettici, seguendo le variazioni possibili sul percorso dei moduli quadrati. In altri casi, genera caratteristici motivi a esagoni affiancati.

Hanno invece destato la nostra curiosità due specifici motivi esagonali, anomali rispetto al contesto e arabeggianti nel loro effetto finale. Seppur complessi, questi motivi sono stati affrontati alla maniera romana, cioè usando il triangolo equilatero come griglia e non come spunto per ottenere un intreccio a forma stellare, a differenza, per esempio, di quanto si può osservare nel disegno del pavimento del Battistero di Pisa (edificio più tardo di circa un secolo, essendo stato iniziato dall’architetto Diotisalvi intorno al 1150), nel quale il pattern dell’intreccio d’insieme nasce appunto da una complessa successione di stelle esagonali.

Ma se per il Maestro di Pisa è ipotizzabile una conoscenza diretta della coeva arte islamica, per quello di San Marco si potrebbe pensare piuttosto ad una suggestione indiretta, tradotta poi con gli strumenti culturali e tecnici a lui propri, di prevalente derivazione romano-bizantina. Ulteriori confronti fra i due pavimenti, quello pisano e quello veneziano, sarebbero molto interessanti, ma ci porterebbero lontano rispetto ai fini di questa ricerca. Oltre a questi due grandi gruppi di pattern, ve ne è un terzo, quantitativamente ridotto ma qualitativamente significativo, classificabile come “repertorio tardo romano”, riletto però in termini fortemente innovativi.

Passando dall’analisi strutturale a quella estetica, occorrerà gettare uno sguardo d’insieme sui motivi fin qui passati in rassegna; motivi che, essendo spesso accomunati dallo stesso pattern strutturale, si possono suddividere e raggruppare per nuclei omogenei solo a grandi linee.

Un primo consistente gruppo di motivi si sviluppa a partire dalla dialettica positivo-negativo, cioè usando come pattern quattro moduli quadrati alternati. Affine a questo gruppo, vi è il gruppo di motivi sviluppantisi sul “diamante” equilatero. Molto diffuso ed esteso è il gruppo di motivi a ottagoni intrecciati. Trasversale a tutte queste famiglie (approssimativamente un terzo dei pattern complessivamente schedati) è invece il nutrito gruppo di motivi trompe l’oeil ottenuti sfruttando a fondo le possibilità cromatiche e compositive dei rispettivi moduli di partenza.

Altro gruppo per così dire “trasversale”, è quello costituito dai motivi a scacchiera a quadrati bianchi e neri. In essi la scacchiera viene però usata non con valenze simboliche, come avviene ad esempio nel pavimento del Duomo di Otranto, ma solo per le sue qualità estetiche: cioè per alleggerire e variare le campiture quadrate comuni a molti e diversi motivi. I tasselli vengono infatti sempre usati in numero dispari, raccordando il nero o il bianco dei vari settori al fine di ottenere una congruità compositiva. Inutile dunque cercare la canonica sequenza di otto tasselli – quattro bianchi e quattro neri – che caratterizza il lato della classica scacchiera composta di sessantaquattro tasselli: come tutti gli altri numeri pari, esso è del tutto assente.

I motivi di diretta derivazione tardo-romana, seppur numericamente esigui, meritano un commento a parte. Anche qui le meraviglie non mancano. Spettacolare è la rilettura del caratteristico motivo romano a tre semicirconferenze, una grande e due piccole inscritte, qui usato in file affiancate, invertite e raccordate in modo da ottenere un’onda continua. Stupefacenti sono le variazioni sul tema della classica tassellatura a quadrati e triangoli equilateri (il motivo è quello a quadrati inclinati e losanghe). Originale è la ripresa del motivo a coda di pavone (si tratta del disegno a “conchiglie” caratteristico delle pavimentazioni in porfido), rivisitato tramite semicirconferenze bianche separate da riempimenti neri ottenuti con tasselli interi e non con cubetti separati.

A questa famiglia si possono ascrivere anche due enigmatici motivi evidentemente derivati dal precedente, il cui pattern ci ha dato molto filo da torcere. Vi sono poi, affini a questi, alcuni motivi “fantasia” avulsi dalla tradizione canonica. Fra questi ne spicca uno particolarmente curioso, costituito da cerchi divisi in dieci settori, con colori alternati secondo lo schema positivo-negativo. Vi sono anche numerosi motivi a losanghe ottenute con tutti i procedimenti consentiti dai moduli-base, e cioè: diagonali del quadrato e triangoli equilateri affiancati. Si basano sulle losanghe anche alcuni motivi a zig-zag ad esse assimilabili. Vanno infine segnalati alcuni motivi, esigui per numero ed estensione ma presenti in più punti, a cerchi intrecciati.

Questo, allo stato, è quanto possiamo affermare sullo specifico delle strutture compositive dei motivi del pavimento marciano, ma la ricerca è lungi dall’essere conclusa. Sul piano estetico, si può affermare che l’insieme è sicuramente di matrice tardo-romana, ma il risultato va molto oltre i limiti che una simile etichetta lascerebbe supporre, anche in rapporto al già citato esempio del pavimento del battistero di Pisa. Ma qualcosa in questo senso potremmo dire solo una volta superata la profonda sindrome di Stendhal che ora ci affligge.

〈1〉 E. Vio (a cura di), Il manto di pietra della basilica di San Marco a Venezia. Storia, restauri, geometrie del pavimento, Venezia, Cicero, 2012. Il volume fa parte della collana “Quaderni speciali della Procuratoria” e contiene saggi di Ettore Vio, Luigi Fragonese-Carlo Monti, Lorenzo Lazzarini, Michele Emmer, Raffaele Paier.

〈2〉 Per la definizione, qui basilare, dei concetti di “modulo”, “pattern” e “motivo” e le relative distinzioni interne, si veda il nostro contributo già pubblicato su questa stessa rivista: M. Lazzarato, Modulo, pattern, motivo, in Fare Decorazione, n. 6, novembre-dicembre 2012.

In alto: Planimetria tattile della Basilica di San Marco (particolare). Sopra e sotto: Particolari di mosaici pavimentali con motivi geometrici, sec XI, Venezia, Basilica di San Marco.

 

 

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