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Anatomia di un delitto

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Nei suoi deliri protonazisti d’inizio ‘900, Adolf Loos equiparava l’ornamento al delitto, teorizzando così quella cifra minimalista, espressione del fanatismo luterano, che, a seguito di varie vicissitudini, si sarebbe poi imposta come lo stile della modernità novecentesca 〈1〉. Noi, assuefatti al dogma delle “bianche muraglie” loosiane vissuto come verità rivelata, osserviamo oggi gli antichi ornati con un misto di sbigottimento e morbosa curiosità. Ci impressiona l’efferatezza del delitto perpetrato contro la superficie rigorosamente bianca e liscia, ma, nel contempo, siamo morbosamente attratti dalla diabolica abilità criminale del suo autore. Ignari di cosa si nasconda sotto la pelle e i muscoli di tali invenzioni, perché condizionati dal personalismo della moderna cultura individualista, che nega l’esistenza di strutture compositive regolari e rigorose, leggiamo tali realizzazioni come puri aggregati segnici, catalogabili solo come estemporanee calligrafie o “scarabocchi”, eseguiti di getto da un ornatista virtuoso, questo sì, ma evidentemente psicopatico.

Il nostro proponimento è di analizzare qui due efferati delitti perpetrati nel campo della miniatura dei codici: proprio quel settore che l’austera morale editoriale derivata dalla luterana stampa a caratteri mobili considerava più “degenerato”, per usare un altro termine caro a Loos.

Per un maestro ornatista intervenire su un manufatto, quale che esso sia, impone sempre un compromesso fra la propria volontà soggettiva e le reali possibilità connesse ai costi, ai materiali e alla funzione. Suo vincolo ineludibile, infatti, è la necessità di governare in modo inequivocabile la filiera di maestranze (tagliapietre, posatori, ebanisti, intagliatori, e via via discorrendo) che dovranno poi realizzare il suo disegno. Ciò impone al maestro ornatista disegni chiari e regolari, nei quali la griglia costruttiva diventi il sicuro binario su cui far scorrere tutta la successiva procedura costruttiva. La miniatura, invece, comportando solamente l’uso di penna e inchiostro, si piega docilmente alla volontà dell’ornatista, consentendogli di dare libero sfogo alle sue invenzioni, avendo come unico limite il proprio virtuosismo. Due miniature serbe del secolo XVI ci forniscono il pretesto per scavare in profondità in questa tipologia di ornati e comprenderne meglio le strutture compositive.

Pagina dal Codice di Dusan, sec. XVI, Belgrado, Museo Nazionale Serbo.

L’autore della prima delle due miniature, tratta da una copia ormai tarda del trecentesco Codice di Dušan, sarebbe stato definito da Loos un assassino seriale, perchè uccide il biancore delle pagine servendosi di un modus operandi ripetitivo e regolare. Egli parte dalla comunissima griglia ortogonale di otto moduli e ne intreccia i segni: metodo classico, comune a tutti i miniaturisti d’Europa. La famiglia di ornati con cui abbiamo qui a che fare è l’intreccio, che spazia dalla semplice treccia a correre, per arrivare, attraverso complesse composizioni centrali, al nodo vero e proprio. Una delle basi per la realizzazione di tali ornati è appunto la griglia ortogonale (l’altra è il sistema a punti), nella quale si interviene tagliando i fili posti su altezze diverse e collegandoli fra loro in modo da incrociarli. Il sistema è concettualmente semplice (il filo sopra si collega a quello sotto e viceversa) ma richiede una grande maestria per ottenere risultati esteticamente apprezzabili. L’operazione di “taglia-cuci” si attua solo sul pattern, mentre saranno poi le sue riflessioni speculari a generare l’intero motivo a intreccio.

In questo tipo di composizioni, il virtuosismo consiste nel trovare il punto di equilibrio in cui l’intreccio appare totalmente inventato dall’artista, ma l’ordine dato dalla griglia rimane ancora leggibile. Troppo banali infatti sono gli intrecci pedantemente eseguiti sulla griglia, eccessivamente astrusi sono invece quelli che la ignorano completamente. Maestri di quest’arte furono i calligrafi irlandesi (si pensi all’Evangeliario di Lindisfarne o al Libro di Kells ), tant’è che oggi si ha l’abitudine di rubricare questo tipo di realizzazioni sotto l’appellativo di “arte celtica”. Tuttavia è curioso il fatto che analoghi modelli si trovino anche nell’arte islamica (di cui la miniatura del Codice di Dusan testimonia l’irradiazione attraverso i Balcani) al punto che il grande storico dell’arte Jurgis Baltrusaitis, ne Il medioevo fantastico 〈2〉, attribuisce proprio alla importazione di modelli islamici la genesi di queste composizioni in Europa settentrionale. Noi invece riteniamo che il tutto sia riconducibile ad una comune, più antica matrice greco-romana, ma non andiamo oltre nell’affrontare un tema complesso, che meriterebbe una trattazione a sé.

Criminale diabolico e psicopatico, invece, sarebbe stato definito da Loos l’autore della seconda miniatura, tratta dal Codice di Venijamin. Qui siamo di fronte ad un intreccio pensato come tale e non ottenuto dal lavoro di “taglia-cuci”. La griglia-base viene sostituita da una complessa matrice stellare ottenuta con una stella a sedici punte portata in riduzione per sei volte. Si costruisce cioè una stella madre a otto punte incrociando a 45° due quadrati inscritti in una circonferenza. Seguendo le sue linee mediane interne, si procede per altre sei volte al disegno della successione rombo-quadrato, iscritti in ognuno dei due quadrati di partenza. Si ruota poi la stella madre in modo che gli apici coincidano con le bisettrici della precedente (si costruisce in pratica la stella a sedici punte) e si ripete l’operazione di riduzione rombo-quadrato per altre sei volte. Il risultato è una complessa matrice che consente di organizzare sui punti della prima stella a otto punte gli intrecci primari, e su quelli dell’altra i secondari.

Pagina dal codice di Venijamin, sec. XVI, Belgrado, Biblioteca Universitaria.

Punto chiave del sistema, però, è la partenza dell’intreccio dal centro. Qui Loos avrebbe lanciato tutti i suoi strali di fronte a tanta perversione. L’intreccio centrale, infatti, scaturisce da due Croci di Betlemme costruite l’una sulla prima e sulla terza riduzione (contando a partire dal centro) e l’altra sulla terza e sulla quinta, in modo che i limiti esterni della prima incrocino quelli interni della seconda consentendo l’intreccio: veramente diabolico! Ma il Maestro del Codice di Venijamin procede oltre, perché il tutto va poi a concludersi in un spazio quadrato, lasciando intendere che gli ulteriori riempimenti sono organizzati sulla matrice quadrata (la matrix propriamente detta), che in questa sede tuttavia non analizziamo.

A margine va osservato che la Croce di Betlemme, che nella sua costruzione regolare oggi sopravvive come motivo tradizionale per patchwork, è figura curiosa. La sua costruzione base (irregolare) si ottiene costruendo su ogni lato di un unico quadrato quattro quadrati minori e congiungendo verso l’interno le diagonali dei due centrali. Se si inscrive questa figura in un rombo, collegando le punte con una linea a 45° si scopre che esse ne dividono il lato in tre parti uguali anziché in quattro. Ne deriva che la stessa costruzione genera due figure apparentemente diverse in base al lato di appoggio. Motivo, questo molto usato in ebanisteria.

Questa breve indagine forense, sulle strutture interne di due splendidi esempi di miniatura a intreccio, non è però sufficiente a farci cantare vittoria: una cosa infatti è capire come le due immagini sono state realizzate, altra cosa è invece saperle eseguire ex novo, in maniera autonoma. In ogni caso, da quanto detto in precedenza emerge un dato certo: non siamo di fronte a disegni eseguiti d’impeto, direttamente sulla pagina, come il mito romantico della calligrafia vorrebbe farci credere, ma a complesse composizioni, risolte altrove e lì riportate.

Sui sistemi di riporto non dovrebbero esserci dubbi. Lo spolvero (ossia un disegno traforato attraverso cui si fa passare polvere di carbone) è il più probabile, ma anche il ricalco sul tipo di quello eseguito con un tavolo luminoso è plausibile, stando a quanto ci mostrano manuali e repertori molto diffusi nei secoli passati. Si pensi per esempio ai libri di modelli per ricamo pubblicati in Italia nel secolo XVI 〈3〉: in essi si mostra come i modelli in carta si possano trasporre su stoffa, indicando, fra gli altri metodi, l’uso di una candela posta sotto un telaio in cui è tesa la stoffa, oppure, al medesimo scopo, il posizionamento del telaio accanto a una finestra.

Più difficile è capire con quali materiali e strumenti sia avvenuta la progettazione della decorazione miniata. La costruzione della matrice su carta è cosa certa; ciò che non è chiaro è il successivo processo di elaborazione del motivo, che certamente avrà implicato diversi tentativi. I ricettari tradizionali ci descrivono vari sistemi per creare “carta da lucido” – per dirla con una terminologia moderna – attraverso l’uso di oli siccativi, cere e solventi: è dunque plausibile che tali sistemi fossero in uso già in epoche molto lontane.

Terzo punto non chiaro è il dimensionamento del disegno finale per lo spolvero o il ricalco. Possiamo supporre che il lavoro di progettazione si svolgesse in dimensioni maggiori rispetto a quelle del disegno finale, spesso piccolissimo, e che quindi il pattern subisse un processo di riporto (con punti fissi o con retino di riporto) verso le dimensioni definitive, prima di essere ribaltato. Come si diceva, però, supporre è una cosa, verificare sul campo è un’altra.

L’ intreccio è una famiglia basilare per l’ornatistica perché consente la fusione fra la mistica perfezione delle griglie strutturali e la libera interpretazione da parte dell’artista. Questo ne fa un motivo-chiave sia sul versante religioso – basti citare tutta l’arte islamica o gli evangeliari medioevali – sia su quello laico: pensiamo solo a cosa ha prodotto il secolo XIX in questo campo. Il ‘900, ossessionato dai propri miti meccanicisti, non è più stato in grado di realizzare intrecci, limitandosi saltuariamente alla riproduzione fotografica di modelli storici, e rimarcando così il proprio totale distacco rispetto ad una radice culturale essenziale nella storia dell’umanità. Recuperare oggi la capacità di progettare un intreccio, anche solo sul piano laico del mero ornamento, è questione di vitale importanza, e non solo per il divenire della Decorazione.

〈1〉 Vedi A. Loos, Ornamento e delitto, in A. Loos, Parole nel vuoto, Milano, Adelphi, 1972¹. Ricordiamo che il saggio di Loos è stato anche pubblicato e commentato nei nn. 0-7 di questa stessa rivista.

〈2〉 J. Baltrusaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell'arte gotica, Milano, Adelphi, 1973¹ (ed. orig. 1955).

〈3〉 Cfr. G.A. Valvassori, detto il Guadagnino, Esemplario di lavori: che insegna alle donne il modo e l'ordine di lavorare, Bergamo, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, 1910 (ediz. or. 1531); Alessandro Paganino, Il burato. Libro de recami, Bergamo, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, 1909 (ediz. or. 1530 circa); G. Ostaus, La vera perfezione del disegno per punti e ricami, Bergamo, Istituto italiano d'Arti Grafiche, 1909 (ediz. or. 1561).

In alto: iscrizione del miniatore Gligorio nell'ultima pagine dell'evangeliario del principe Miroslaw, sec. XII, Belgrado, Museo Nazionale. Sotto: croce di Betlemme usata come motivo per patchwork.

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