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Buoni, cattivi, sempre selvaggi

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Conoscete il mito del “buon selvaggio”? Occorre frugare nei ricordi delle medie superiori, tornare al secolo XVIII, ai nomi di scrittori e filosofi come Jean-Jacques Rousseau, Bernardin de Saint-Pierre, François-René de Chateaubriand. E agli scopritori dei lembi più lontani del pianeta terra nell’emisfero australe, come Louis de Bougainville e James Cook. È nel Settecento che la cultura europea, intrisa di razionalismo illuminista e già sedotta dall’aspirazione romantica verso l’infinito e l’inesprimibile, elaborò questa idea. L’idea, cioè, che la civiltà fosse di per sé corruttrice, deviante, e che solo in un presunto stato di natura, quello appunto del “buon selvaggio”, dell’uomo non ancora viziato dal progresso, si potessero reperire quei valori di bontà, altruismo, sincerità, che la società moderna, coi suoi complessi e machiavellici rituali, sembrava negare.

In questo orientamento giocava un ruolo-chiave l’incontro con le più sperdute civiltà extraeuropee: dagli indios centrosudamericani agli amerindi dell’America settentrionale, dai popoli dell’Africa nera agli aborigeni australi. La loro “ingenuità”, la loro generosità nello scambiare metalli, pietre preziose e altre materie prime con le cianfrusaglie dell’uomo bianco (inclusi alcool e armi da fuoco), l’apparente facilità e lascivia con cui le loro donne si concedevano, l’infantilismo (anch’esso apparente) delle loro credenze religiose: tutto sembrava lasciar credere che il primitivo extraeuropeo stesse al moderno europeo più o meno come un bambino ancora incapace di leggere e scrivere sta ad un adulto alfabetizzato e responsabile. Che tutta l’innocenza e la buona fede che i navigatori, colonizzatori e predoni europei avevano perduto per strada, fosse ancora intatta in quei popoli dimenticati da Dio (il Dio europeo, naturalmente).

Va da sé che questo modo di vedere le cose non era propriamente disinteressato: se il primitivo era bambino e l’europeo adulto, allora quest’ultimo aveva tutto il diritto (per il bene di quell’essere inferiore, non ancora evoluto ed educato) di imporgli, anche con la forza, le sue credenze, i suoi modelli culturali. Così, accanto alla curiosità e allo stupore per modelli di vita che in Occidente apparivano inconcepibili e favolosi, altre e più complesse domande si affacciavano alla coscienza occidentale. Domande alimentate anche, e non secondariamente, da rimozioni e sensi di colpa, dalla necessità di costruire degli alibi che in qualche modo giustificassero, rendendolo più accettabile, ciò che accadeva in quei luoghi lontani ma sempre meglio conosciuti. E cioè il fatto che quei popoli venissero ridotti in schiavitù, deportati, annientati dai conquistatori bianchi. Mettendo in moto quella spirale di genocidio e di pulizia etnica, che il secolo XX avrebbe poi compiutamente realizzato, e non più nelle periferie del mondo ma nel suo centro nevralgico: l’Europa appunto.

Semplificando per ragioni di spazio il quadro d’insieme, potremmo dire che tra il “buon selvaggio” rousseauiano, sospeso in uno strano limbo in cui colui che è “buono” è anche colui che “non sa quello che fa”, e le cosiddette “razze inferiori” (neri, ebrei, zingari…) catalogate, messe all’indice, isolate, perseguitate con metodo scientifico e accanimento ideologico dai regimi del secolo XX, vi è tutto un ventaglio, molto complesso e vario, di sfumature e definizioni intermedie. Sfumature e definizioni che nascevano in sede etnografica, medica, biologica, e che facevano sì che, mano a mano che l’occupazione europea dava vita ai grandi imperi coloniali, il “buon selvaggio” delle origini cedesse sempre più terreno al “cattivo selvaggio”, se così vogliamo chiamarlo: pigro, privo di senso morale, infido, incapace di qualunque disciplina.

È il “cattivo selvaggio” propagandato da tanta scienza e pseudoscienza ottocentesca, tributaria dell’idea positivista di progresso: un progresso lineare, inarrestabile, da intendersi come mezzo, fine e unità di misura di ogni azione umana. Per colmo di ironia, le critiche negative mosse agli indigeni da tanti esploratori e scienziati che viaggiavano per il mondo, avevano un loro paradossale contenuto di verità: nel senso che lo sfruttamento coloniale aveva ormai tolto agli autoctoni quell’aura di purezza, quell’incontaminato folklore, quelle caratteristiche identitarie che, al tempo delle grandi scoperte geografiche, li avevano resi così affascinanti. Non lasciando loro che un’ombra dell’antico splendore e tutte le tare di una condizione asservita.

Abitanti dell’altipiano orientale della Papua Nuova Guinea in una foto scattata nel 1933 da Mick Leahy (© Australian Museum).

Era tutto sommato facile trasferire l’immagine di corruzione e decadenza di costumi, che quelle etnie sottomesse comunicavano al visitatore europeo, anche agli abitanti dell’Europa stessa, laddove l’arretratezza, le malattie, i vizi, la superstizione, erano piaghe diffuse in larghissimi strati sociali, anche nei paesi più ricchi. L’antropologia e la criminologia di Cesare Lombroso, per esempio, si diedero come oggetto di studio privilegiato proprio questo: cioè non gli indigeni delle colonie (l’Italia ancora non ne aveva) ma le classi subalterne della penisola: braccianti, malviventi, prostitute, operai, contadini, disoccupati. Tutta gente “a rischio tatuaggio”, per dirla con Loos.

Proprio come i “pellerossa” dell’epopea nordamericana, i Papua della Nuova Guinea di cui parla Loos in Ornamento e delitto appartengono al tipo del “cattivo selvaggio”. Non foss’altro perché, nei processi di sfruttamento economico delle colonie d’oltreoceano, essi rappresentavano innanzitutto un intralcio. Il popolo Papua era infatti un pezzo di preistoria posto sul cammino di uno dei complessi militari-industriali più potenti al mondo: l’Impero Tedesco fondato nel 1871 dal cancelliere Otto von Bismarck. Insomma non c’era nessun esotismo, nessun utopismo alla Rousseau nell’interesse mostrato nel 1908 da Loos per i Papua. Vi era il fatto, molto più prosaico, che di questa popolazione si parlava sui giornali e nelle università, in quanto una parte importante della Nuova Guinea (l’isola dell’Oceania con la più forte presenza di indigeni Papua) era divenuta protettorato tedesco nel 1884 e lo sarebbe rimasta fino al 1914, anno di inizio del primo conflitto mondiale.

Come tutti gli intellettuali austroungarici della Bélle Époque, il ceco-viennese di etnia tedesca Adolf Loos guardava con grande interesse alle vicende dell’altra, più potente nazione di lingua tedesca, il Reich bismarckiano appunto, la cui capitale si trovava a Berlino. Oltreché la lingua, erano comuni ai due imperi anche molte aspirazioni politiche e territoriali, tra cui quelle che avrebbero poi portato l’Austria-Ungheria e la Germania a fare fronte comune nella guerra del 1914-18. A un uomo colto e raffinato, austeramente vestito, con lo sparato bianco della camicia incravattata, quale era Loos, confrontarsi coi sudditi Papua mangiatori di uomini, addobbati di piume colorate, con la pelle traforata da frammenti di legno e osso e (scandalo degli scandali) tatuati, doveva dare una sensazione di superiorità quasi siderale. Poco importava, a questo punto, che proprio l’avanguardia artistica tedesca per antonomasia, l’Espressionismo fiorente in quegli anni tra Vienna, Monaco e Berlino, si ispirasse in modo evidente alle maschere tribali e ai paesaggi dei tropici.

Di tutto ciò Loos sembra non avere la minima nozione; nessun dubbio relativistico scalfisce la sua illimitata autostima. Per un uomo davvero civile, sembra dirci Loos, i selvaggi delle foreste equatoriali e i reietti delle moderne metropoli sono degli sventurati e nulla più. Inciampi sul cammino del progresso. Entrambe sono realtà in ritardo più o meno accentuato, più o meno irrecuperabile, sui tempi che corrono. Il mondo spirituale di chi non è al passo coi tempi si sintetizza per Loos nelle immagini dell’uomo delle caverne (“troglodita”, si diceva all’epoca) che soggiace alle pulsioni sessuali; del bambino che studia e disegna gli orifizi del proprio corpo; del frequentatore di latrine pubbliche che imbratta di disegni osceni le pareti allo stesso modo, quasi ebbro, con cui espleta le proprie necessità fisiologiche; del nobile decaduto e corrotto. Al massimo, per il Papua e il bambino si potrà invocare l’attenuante rousseauiana della naturalità, dell’innocenza.

Ce n’è abbastanza per invocare, questa volta a favore di Loos, l’attenuante di qualche trauma infantile, di un Super-io freudiano cresciuto a dismisura, ossessivamente impegnato a censurare e nascondere in se stesso ciò che è così evidente negli altri. Gli altri appunto: i selvaggi, i criminali, i copulatori scimmieschi e tatuati.

In alto: la mappa del mondo pubblicata da padre Matteo Ricci nel 1602. Sotto: ascia tradizionale in pietra e fibre vegetali, Papua Nuova Guinea.

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