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Rileggendo Owen Jones

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Le trentasette proposizioni di Owen Jones, per la prima volta tradotte in lingua italiana, che presentiamo su questo numero di FD 〈1〉, sono solo un affascinante reperto oppure ci riguardano ancora da vicino? Che senso ha parlare oggi di regole, di prescrizioni, di cose da fare o evitare in arte? E in quale arte?

Una prima risposta, tra il paradossale e il provocatorio, è quella che suggerisce che anche l’approccio più selvaggio e spontaneista, sdegnoso di ogni regola, finisce per diventare esso stesso, fatalmente, “regola”; e che quindi anche la totale assenza di limiti, lungi dall’essere sinonimo di libertà, non è che l’ennesimo obbligo/divieto al quale conformarsi. Già, perché la libertà (qualunque libertà) non esiste in astratto, ma si dà solo nell’osservanza di limiti magari sottili ma ben identificabili, ed eventualmente studiando in che modo questi limiti possano essere ridefiniti, spostati più in là. Insomma, pensare che il valore della creazione possa fondarsi sull’eccezionalità e sull’arbitrio è altrettanto sciocco che applicare acriticamente un decalogo, e non aiuta a crescere né gli artisti né il pubblico.

In realtà, quello che oggi davvero rende difficile accettare l’esistenza di un retaggio di regole e convenzioni di carattere generale (salvo poi osservarne tantissime, sia esplicite che implicite), è il fatto che, nella visione eroico-individualistico-narcisistica che va per la maggiore, è l’artista stesso a darsi le proprie regole e convenzioni, stabilendo quale debba essere il teatro, l’audience ideale per le proprie proposte. E quand’anche questo teatro, questa audience si rivelassero pura fantasmagoria, vi è sempre spazio per pensare che la ragione sufficiente dell’agire artistico stia tutta nello slancio utopico, nell’azione gratuita e senza scopo.

Ma quando si passa al decoro, inteso come terreno quotidiano, non effimero, in cui possa allignare la vita sociale e civile, il quadro d’insieme si complica. Ecco perché rileggere le raccomandazioni di Owen Jones sull’arte di ricoprire di forme e colori spazi architettonici ed oggetti, può essere un esercizio molto utile per tutti coloro che, senza necessariamente dichiararsi “artisti” ma semplicemente perché attivi nel mondo della progettazione (dall’arredo urbano all’architettura d’interni al design), sono in qualche modo, più degli artisti tout court e spesso senza nemmeno rendersene conto, gli artefici dell’habitat in cui viviamo.

A questo proposito, va subito rimarcato che gli enunciati di Jones sono di tipologia assai varia, e non sono mai interpretabili, in nessun modo, come prescrizioni secche, unidirezionali. Passiamoli dunque velocemente in rassegna, dando per scontati i raggruppamenti e i titoli interni in cui le trentasette proposizioni si dividono, e tentando alcuni rimandi alla sensibilità odierna.

Le proposizioni 1-5 sono affermazioni di carattere generale, da intendersi come uno spettro di possibilità talmente vasto da lasciare una libertà di azione pressoché infinita. Quanto in particolare alla proposizione 1, se della parola “architettura” (parola che a metà secolo XIX aveva una valenza omnicomprensiva oggi non più proponibile), acconsentiamo a dare un’accezione allargata a tutti i temi della progettazione contemporanea, dal design alla grafica, ci accorgiamo che essa non presuppone affatto una concezione antiquata e gerarchica delle arti, come superficialmente potrebbe apparire.

Le proposizioni 6-13 insistono sulla natura interstiziale e geometrica della decorazione. Ovvero, la decorazione trova i luoghi migliori in cui allignare nei punti nodali, nei nessi architettonicamente caratterizzanti di un oggetto, enfatizzandoli e da lì espandendosi ad occupare, in grado decrescente, le varie superfici di riempimento. È la legge non scritta di tutti gli apparati decorativi: giunti, mensole, capitelli, scanalature, incastri, perni, nascono come risposta a precise necessità strutturali, e successivamente, col perfezionarsi dei materiali e delle tecniche disponibili, lasciano via via per strada le ragioni strumentali originarie, per diventare motivi figurativi in qualche misura autonomi, portatori di significato e, quindi, di decoro. Affinché questa transizione dal funzionale al decorativo abbia luogo, dev’esservi sempre, più o meno dissimulato sotto i motivi figurativi, una saldo disegno geometrico: è grazie ad esso che lo spazio diventa chiaro, leggibile, a misura d’uomo, al di là del maggiore, minore o minimo peso degli ornamenti che lo ricoprono. Quanto ai rapporti proporzionali espressi in termini numerici di cui si parla alla proposizione 9, essi non sono che un invito ad alzare l’asticella della sfida: perché accontentarsi dei multipli e dei sottomultipli più semplici, quando ne esistono di più pregiati e sofisticati? Dire che la proporzione 4:8 è meno interessante di 5:8 equivale da parte di Jones a spezzare una lancia a favore dei sezionamenti, delle frattalizzazioni, delle modulazioni via via più sottili, senza però cadere nella trappola dell’astrazione matematica o, meglio, di una numerologia fine a se stessa, priva di un rapporto immediato, empiricamente evidente, col visibile.

Le proposizioni 14-34, dunque quasi i due terzi del totale, sono dedicate ai temi e ai problemi del colore. Un’enormità, si direbbe. Certo, nell’età del positivismo e dello scientismo lo studio del colore aveva assunto una profondità e precisione scientifica (soprattutto in vista di utilizzazioni pratiche in campo industriale, tessile in primis) davvero impressionanti, e l’esplicito riferimento di Jones alle ricerche del chimico francese Michel-Eugène Chevreul (1786-1889) ne è una testimonianza. In realtà, ancor oggi il colore continua ad essere un oggetto d’indagine estremamente frequentato, ma il rischio di una assolutizzazione in chiave romantico-espressionistico-sentimentale è sempre dietro l’angolo. Come invece emerge dalla puntuale analisi di Jones, non ha senso alcuno parlare di un colore in sé e per sé, ma solo nella reciprocità con gli altri, e in una distribuzione e quantificazione spaziale ben precisa. Cosicché i frazionamenti e le semplici proporzioni geometriche già viste all’opera nel campo del disegno e delle relative condizioni progettuali (vedi proposizione 9), tornano a fare la loro apparizione anche in campo cromatico (vedi proposizione 18).

Per quanto marginale, la proposizione 35 si rivela essere, alla luce di quanto si è visto nei centocinquant’anni successivi alla pubblicazione della Grammar of Ornament, un provvidenziale antidoto al kitsch dei materiali di pregio (marmi, essenze lignee eccetera) che vengono ancor oggi usati a piene mani per riempire il vuoto lasciato dalla progressiva scomparsa dell’ornamento, sia essa figurativo o astratto. All’ipocrisia novecentesca e postmoderna, che tollera le venature dei materiali da costruzione proprio in quanto decorazione “spontanea”, creata da Madre Natura senza bisogno di intervento umano, Jones contrappone il valore dell’imitazione e perfino della contraffazione, laddove queste rientrino nell’economia di una visione ampia, normativa, in cui anche il registro del “falso” e del “verosimile” svolga la sua legittima funzione, stimolando le risorse dell’esperienza e dell’inventiva.

Con la proposizione 36, Jones tappa la bocca a quanti, oggi, potrebbero sentirsi autorizzati ad accusarlo di passatismo e tradizionalismo: secondo Jones, la conoscenza del passato vale non per i fatti e per le cose in sé che ci tramanda, in quanto essi ben difficilmente possono rispondere al gusto di oggi; vale invece per i principi generali che se ne possono desumere, a prescindere dai materiali e dalle tecniche utilizzati.

La proposizione 37 individua infine i termini di una sfida culturale da impostare con premesse ed obiettivi ben chiari: la tanto favoleggiata “sapienza degli antichi” non è scienza esoterica né passatempo archeologico ad uso delle persone colte, ma è un prontuario da sfogliare pagina dopo pagina, cercandovi soluzioni concrete e spendibili.

〈1〉 Vedi, su questa stessa rivista, O. Jones, Trentasette proposizioni, 16 luglio 2016.

In alto: Motivo decorativo cinese per porcellana (particolare), da Owen Jones, The Grammar of Ornament, tav. LIX. Sotto: Owen Jones, Progetto di pattern decorativo per rivestimento ceramico, s.d., disegno, Reading, University of Reading.

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