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Dialogo maieutico con Aldo Rossi

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In veste di architetto, designer, teorico e docente, Aldo Rossi (1931-1997) è stato una figura centrale nel dibattito del secondo novecento. La crisi del Movimento Moderno ha avuto in lui un testimone ed un interprete d'eccezione, capace di rinnovare sia lo strumentario progettuale, attingendo ai valori monumentali della tradizione classica, sia il linguaggio critico, mettendo al centro della propria riflessione l'idea di memoria e di perennità. Nel corso degli anni ottanta, Rossi divenne una figura eponima - oggetto di imitazioni spesso discutibili - del Postmodernismo allora in voga. In questa conversazione del 1992 con Maria Grazia Eccheli, l'architetto milanese si diffonde su uno dei temi più familiari alla sua piena maturità espressiva: la decorazione, intesa come istanza primaria di civiltà. Architetto, docente universitario, direttore della rivista  Firenze Architettura, Maria Grazia Eccheli è autrice, tra l'altro, della voce "Decorazione", inclusa nel  Dizionario critico illustrato delle voci più utili all'architetto moderno (a cura di L. Semerani, Edizioni C.E.L.I., Faenza 1993), al quale si fa cenno nel corso della conversazione. Rimasto inedito dopo la chiusura della rivista  Phalaris, cui era originariamente destinato, il  Dialogo maieutico è uscito nel 2017 su  Firenze Architettura, n. 2, pp. 4-11. Un vivo ringraziamento a Maria Grazia Eccheli per averci autorizzato a ripubblicarlo qui. Le immagini che corredano il testo sono il frutto di una scelta redazionale.

M.G.E. Vorrei tentare di formulare assieme a te la “questione della decorazione oggi”. Partiamo dall’assunto che la decorazione sia divenuta “impossibile ma necessaria”. Impossibile perché la costruzione la esclude, necessaria come elemento di una teorica completezza dell’architettura, vuoi per risolvere un edificio vuoi come risposta a una aspettativa sociale…

A.R. Credo che quanto tu dici – che la decorazione sia divenuta oggi impossibile per motivi esterni, economici ad esempio – è una constatazione seria. Credo, però, che il problema – uno dei problemi più difficili in Architettura – sia stabilire che cosa è la decorazione. A fronte dell’ipotesi del costruttore che rifiuta la decorazione, dobbiamo chiederci perché non la vuole. Solo per motivi economici? Che cosa è, infatti, nel senso comune, la decorazione?

In prima approssimazione, nel senso comune sono le statue, sono le porcellane, sono i dipinti sulle facciate… Tali cose, per avvicinarci al concetto di decorazione, sono qualcosa in più delle necessità strutturali e funzionali, ma sono anche qualcosa in più dello stesso progetto architettonico. Sono qualcosa che l’architetto aggiunge alla propria architettura.

Aggiunge o non aggiunge.

Questo mi sembra già un corretto avvicinamento al problema della decorazione. La decorazione non esiste per motivi strutturali, non esiste per motivi – diciamo così – tecnologici. Potrebbe esistere per motivi di mascheramento. Ma è una proposizione che tu scarterai e che anch’io scarto: laddove ho bisogno di un mascheramento, c’è una cattiva architettura. Quindi, in tal caso, non avremo decorazione.

Non che voglia fare il socratico per arrivare a una definizione di decorazione, ma pensiamo a un progetto che in sé corrisponda al canonico principio di utilitas-firmitas-venustas: non è ancora detto che presenti la decorazione. Io voglio aggiungere qualcosa a questo progetto. Credo che in questo caso la decorazione sia interna all’architettura, cioè darei un giudizio generalmente positivo alla decorazione.

A questo punto mi chiedo se, ad esempio, il tempio greco colorato è un tempio decorato, non tanto quindi per le statue i timpani e le metope, ma proprio per la volontà di porre sulla pietra uno stucco rosso o verde o giallo. In questo caso la decorazione è parte dell’architettura. Laddove non c’è questa decorazione – ed è il caso dell’architettura classica per come noi la conosciamo – è una conseguenza di una deformazione romantica, perché in fondo noi, dal Petrarca in avanti, vediamo i relitti classici come relitti “non finiti”. E ci dà un po’ fastidio questa passibilità di colore nelle statue o nell’architettura classica, per cui diamo a questo senso di decorazione un valore negativo che di per sé non possiede.

Quattro delle oltre 260 proposte pervenute nel 1922 al concorso per la nuove sede del “Chicago Tribune”. Terza da sinistra, quella di Adolf Loos (www.archdaily.com).

M.G.E. A proposito del tempio greco, come condividere la tesi che tutto sia decorazione, trattandosi di una continua mimesi della natura (per cui la costruzione in pietra imita la costruzione in legno: colonne, antefisse, metope…). Io penso che sia l’origine dell’architettura…

A.R. Anch’io.

M.G.E. Parlerei invece di decorazione allorché i Romani, grandi costruttori di città, compongono ordini già sperimentati dall’architettura greca e rivestono le loro grandi opere con pietre e marmi preziosi, con fregi statue e bassorilievi… non a caso è questa la lettura dei “moderni” dall’Illuminismo all’Adolf Loos di  Ornamento e delitto. Il Loos che pretende, per i propri edifici, la maniera degli “antichi romani”, che percorre – nella Chicago Tribune – strade forse intransitabili; il Loos di Michaelerplatz che riveste il basamento in marmi preziosi, che compone colonne monolitiche laddove il carattere del luogo lo richiede.

A.R. Rimango ai tuoi tre esempi. Io credo che nell’architettura greca (e sono d’accordissimo con te che la colonna greca non è affatto decorazione, ma piuttosto l’origine dell’architettura, al pari dell’esigenza di creare un microclima: come vedi, sono le ipotesi del Milizia che vanno avanti…), il caso che hai citato del colore sia una decorazione nel vero senso della parola, perché è qualcosa che si è aggiunto in base ad un tipo di cultura che per noi è completamente perduto (citavo prima il Petrarca) e che riviviamo solamente attraverso una lettura, data la nostra incapacità di risalire alle origini. Ma si tratta indubbiamente di un tipo di decorazione. Eppure se io penso un tempio greco colorato a stucco, provo fastidio e quasi mi ripugna: il tempio mi piace così come è oggi. Certo, ammetto di aver perso qualcosa; qualcosa che non posso più assolutamente ritrovare. Nel caso dell’architettura romana – che giustamente tu dici essere fatta allo stesso modo e poi rivestita – è però valido il discorso della magnificenza civile: essendo l’architettura romana, giustamente, un’architettura che non inventa, ma che però è una architettura civile e spesso urbana, che sa comporre, essa ha il bisogno e la necessità di esprimere le istituzioni, molto più di quanto facesse l’architettura greca. Quindi si pone il problema della magnificenza, della convinzione, della persuasione: le institutiones oratoriae  di Quintiliano sono l’architettura romana, vale a dire il problema della convinzione  attraverso la costruzione. In questo caso, quindi, non si tratta tanto di decorazione, ma di una parte dell’architettura stessa. Anche se poi credo che la struttura dell’edificio fosse portata ad altissimo compimento, per una capacità tecnica che però non aveva nulla a che fare con l’idea di finitezza dell’edificio.

Io, che in questi ultimi tempi mi trovo spesso a Roma, ho la finestra della mia camera d’albergo che dà proprio sul Mercato di Traiano, e ci sono queste torri stupende fatte in piccole pietre bianche e nere che sono magnifiche; per noi, però, sono come dei pilastri in cemento armato. Ora, solo un certo momento di una architettura brutalista ha pensato che il cemento armato fosse la costruzione finita. In realtà, una struttura esibita come struttura, diviene a sua volta una decorazione. Lo strutturalismo esagitato, offerto, conclamato diventa a sua volta un fatto decorativo.

La terza questione che mi ponevi, l’atteggiamento di Adolf Loos, è molto più complessa: direi che è tipica di Adolf Loos e di alcuni intellettuali del suo periodo: forse, in letteratura, di Musil… Il magnifico titolo (potrebbe essere un bellissimo film di Hollywood) Ornamento e delitto  – che è anche il titolo del mio film – è in realtà una contraddizione in termini, perché, se mai uno ha letto il saggio, cosa che pochi fanno, sa che quel testo è piuttosto un elogio che non una condanna alla decorazione.

È talmente un elogio che si riferisce a ciò che è perduto. È un po’ come il Werther  per un libro d’amore: è il libro dell’amore perduto. Quindi è il libro dell’amore per eccellenza. Per eccellenza l’amore è qualcosa di perduto: voglio dire che un rapporto, una volta sublimato, è perduto. È proprio in tal senso che il testo di Loos è un delitto: perché, per me, si tratta di una tesi delittuosa. Per Loos la decorazione è il punto più alto di una cultura e il selvaggio che si tatua possiede una identificazione con la natura ed una capacità di decorarsi che noi tutti sogniamo ma che abbiamo perduto. Non possiamo tatuarci, commetteremmo un delitto se lo facessimo, ma nel contempo siamo vittime di un delitto storico perché non possiamo più capire quello che poteva fare un selvaggio.

Quindi, in tal senso, è un vero libro perverso, una tesi perversa.

Aldo Rossi (con I. Gardella, F. Reinhart, A. Sibilla, su progetto originale di C. Barabino, 1825-28), Teatro Carlo Felice, 1983-89, Genova.

M.G.E. Passando alla prassi e alle modalità compositive della decorazione, dove e perché si può parlare di decorazione nei tuoi progetti? Nella maestosa cornice della Torre Scenica del  Teatro Carlo Felice a Genova (decorazione come citazione)? Nelle verdi trabeazioni che ritmano la facciata del  Palazzo a Fukuoka (decorazione come trascrizione e stilizzazione)? O nei frammenti sparsi nelle tue opere?

A.R. C’è stato un momento nella mia architettura (parlo di me perché costretto, altrimenti cerco di evitarlo, pur essendo io un egocentrico) in cui il problema che è emerso, anche nella mia vita, è stato il problema del frammento, di una educazione frammentaria, che è collegato al problema della citazione.

Quello che tu dici è vero: non so se citazione, frammento corrispondono esattamente a decorazione, però dal momento che avviene nelle arti figurative, in qualche modo è decorazione. L’esempio più calzante (il Carlo Felice  è il più clamoroso) è la Tomba di Giussano, dove addirittura, per rappresentare la morte, ho messo una cornice in marmo di Carrara – che è poi la stessa cornice del Vignola che c’è nella Torre Scenica a Genova. Seguendo le norme del delitto  di Adolf Loos, l’ho fatta costruire tutta a mano – così è costata un capitale e gli sta bene – dopo di che è stata rotta in alcuni pezzi. Quando i pezzi sono stati montati, io personalmente a un muratore gli ho fatto rompere, ancora una volta, la cornice: così la cornice si legge in parte rotta, in parte no.

Ora, questa rappresentazione, questa rottura, è una doppia rottura: una chiaramente è la rottura della vita (si tratta di una cappella mortuaria); l’altra è l’impossibilità di usare la cornice del Vignola così com’è. La terza, se vuoi, che ancor più trasforma l’opera in decorazione è che, per qualche senso estetico, è più bello il frammento dell’opera compiuta. È ancora il discorso del Petrarca: quella cornice mi piace più rotta e frammentata che se fosse intera.

Aldo Rossi (con G. Pogliani, C. Stead), Cappella Molteni, 1980-87, Giussano (www.palladium.de).

M.G.E. È ancora una citazione la grande “porta” lignea interna?

A.R. Entrando vi è la ricomposizione della Porta Romana rilevata dal Palladio – ma non si tratta di una ricostruzione filologica – e che è un passaggio tra quello che c’è e quello che non c’è. Dietro la Porta un cielo azzurro che, se vuoi, è decorazione, è scenografia, è invenzione.

Aldo Rossi (con G. Pogliani, C. Stead), Cappella Molteni, interno, 1980-87, Giussano (www.palladium.de).

M.G.E. Ancora sul frammento, visto sotto l’aspetto della decorazione: come leggere le perfette tessiture in mattoni delle chiese quando, in realtà, non sono che splendide strutture in attesa di “rivestimento”? È una semplice iconoclastia del destino o una resistenza dell’opera al proprio compimento a fissare nel tempo l’immagine delle facciate incompiute, in cui poche pietre o un basamento interrotto (penso a San Petronio) trattengono l’opera come sospesa tra realtà e immaginazione? In termini compositivi…

A.R. Scusa se ti interrompo. Quanto hai detto adesso, tocca un argomento che mi interessa molto. Non so se hai visto i miei ultimi progetti: ho in corso due lavori che sono addirittura fatti così: ripetono le antiche chiese non finite. L’Hotel Duca di Milano  e la Chiesa Lombarda  alla Barona hanno, entrambi, il basamento in pietra, in granito, mentre poi la costruzione va su in mattoni. Nella facciata della chiesa, poi, ci sono due grandi statue. In quest’ultima vi è anche una architettura simbolica, se vuoi, perché l’eredità storica del non-finito, che non è ancora frammento, viene ripresa come una forma di espressione della bellezza. Direi che forse la tesi più romantica è quella di lasciare l’amore per il relitto, l’amore per la statua rotta…

Aldo Rossi (con G. da Pozzo, F.S. Fiera), Modello di facciata per una chiesa a Milano-Cascina Bianca, 1990, Roma, Maxxi (www.maxxi.art).

M.G.E. Il  Dizionario ideato da Luciano Semerani tocca più voci, tra le quali “rivestimento”. Secondo te, tra decorazione e rivestimento esistono dei punti di contatto o di coincidenza? Se si può stabilire una differenza tra un rivestimento che si esaurisce nel puro significato tecnico e un rivestimento che, aggiungendo “qualcosa” all’opera, corrisponde ad una qualche intenzionalità estetica e decorativa, quando e come hai risolto questa alternativa nelle tue opere?

A.R. Io farei sempre un rivestimento-decorazione. In alcuni casi ho contrapposto l’intonaco ad un elemento più ricco. Nel Teatro di Genova, ad esempio, tutta la Torre Scenica fino all’altezza di quella che era la Torre del Barabino è addirittura fatta in falso bugnato, ripetendo una tecnica dell’architettura neoclassica. Alla quota dove finiva la torre originaria ho messo una cornice di ottone: la si può leggere come decorativa, come letteraria, come memoria… Sopra vi è un’altra Torre, con altre implicazioni, che viene finita in intonaco. Poi sopra ancora, la cornice del Vignola: altissima. Quando l’ho vista per terra mi sono spaventato – è alta come una stanza… Invece va benissimo: voglio dire che essa corrisponde proprio a una volontà di decorazione.

Adesso sto facendo una costruzione che mi interessa moltissimo: è la villa di Alessi sul Lago Maggiore. Questo progetto è una ricerca di architettura romantica, sfacciatamente di architettura romantica, e verrà costruita secondo le tecniche ottocentesche di alcune ville sul lago. Una architettura post-boitiana, fatta tutta di scaglie di pietra, di cornici in cotto e con un pronao tutto in cotto. Credo che verrà molto bella, molto singolare… molto costosa.

Aldo Rossi (con C. Bolognesi, S. Fiera, M. Scheurer), Villa Alessi, 1989-1994, Sona di Verbania (www.percorsiarchitettonicisullacqua.eu).

M.G.E. Tornando alla decorazione – e per tentare di definire i suoi probabili caratteri – mi sembrano ancora attuali alcuni assunti di Quatremère de Quincy: vale a dire che una decorazione si rende necessaria “per spiegare allo spettatore l’oggetto a cui si applica e fonda la sua necessità sul fatto di pigliare gli argomenti delle sue invenzioni dall’idea principale del monumento, o dai rapporti accessori dell’idea stessa…”

A.R. Si, sono principi molto razionali, molto precisi… Credo che si dovrebbe affrontare un equivoco che si è prodotto nell’architettura moderna: uno dei suoi vanti volgari (neanche attribuibile a storici o a architetti) è quello di essere semplice, di non avere decorazioni. Cosa non vera: neanche dai più stupidi è mai stata affermata. In compenso c’è stata una reazione contro un eccesso di decorazione superficiale, contro l’Art déco, contro il superfluo… Credo che la decorazione sia molto legata al costume, alle abitudini. Qui, ad esempio tutti portiamo la cravatta. La cravatta è indubbiamente una decorazione perché inutile: non ce n’è bisogno; anzi, si sta meglio senza. Esiste però un certo sistema di convenzioni sociali che rende la cravatta obbligatoria.

Recentemente, al Center… c’è stato un dibattito molto interessante con Robert Venturi attorno ad un tema analogo: per il semplice motivo che avevamo disegnato delle stoffe… Diceva a un certo punto Venturi: “l’importante è il nodo della cravatta, che va fatto secondo certe regole e che di conseguenza, senza essere dei gentleman, può venire anche bene… Ma ci sono poi questi Lords inglesi, questi snob, che fanno il nodo pure un po’ male e la cravatta risulta ancora più bella… Questo nodo, però, non lo si può insegnare”. Applausi del pubblico…

Credo che questo sia anche il problema della decorazione: noi possiamo anche dire che una facciata di mattoni, di forati, va rivestita in pietra o in intonaco, e definire tutto ciò una legge dell’architettura. Ma poi un grande architetto, chissà cosa fa: potrà usare una pietra preziosa, oppure l’intonaco… da questo punto di vista, la decorazione può divenire addirittura parte della personalità.

M.G.E. Esiste un tipo architettonico nel quale la decorazione fa parte dello stesso tema progettuale. Progettando un teatro è difficile eludere il modello dello scenafronte romano: luogo fisico e logico ad un tempo della decorazione. Come è stato da te affrontato tale compito all’interno del  Carlo Felice?

A.R. Direi che è un riferimento fondamentale. Nel caso del teatro, io parlo ancora di magnificenza. È questa idea a trasformare il suo interno in una piazza di Genova. Ai lati della scena ci sono due grandi colonne di “rosso Levanto” mozzate. che ricordano quello che era un teatro romano, irripetibile. E poi il cielo con le lampadine… Tutte queste cose chiamiamole magnificenza, decorazione… chiamiamole teatro.

Aldo Rossi (con I. Gardella, F. Reinhart, A. Sibilla), Teatro Carlo Felice, interno, 1983-89, Genova (foto © Maurizio Beatrici/Wikimedia).

M.G.E. Che dire dell’architettura americana, di Graves e Venturi ad esempio. La decorazione vi è troppo immediata nel processo progettuale, tanto da fare svanire la sua natura di “cosa aggiunta”? Una ricerca troppo subito affascinata dall’immagine?

A.R. Per me il problema non cambia molto. Graves, a esempio, e più di Venturi, fa una architettura decorativa che è basata sul dettaglio, sull’aggiunta: quella che viene comunemente chiamata architettura post-modern. Non vi leggerei però una specificità diversa, tanto più se pensi all’architettura americana degli anni trenta… o dell’architettura americana Beaux Arts… c’è sempre stata una derivazione europea.

M.G.E. Cos’è dunque la decorazione? Possiamo tirare delle conclusioni?

A.R. Credo che sul tema abbiamo detto molto… Ritengo che il punto fondamentale sia quello di intendere la decorazione… ricordo al Politecnico… “no: quello è un elemento decorativo…” non si poteva usare nemmeno la parola; un po’ come oggi la parola “cancro”.

Leggevo l’altro giorno sul “Corriere della Sera” un articolo sulla morte di Dino Buzzati. L’autore, non so se fosse un suo amico, non ricordo chi fosse… è riuscito a scrivere una intera pagina parlando della morte di Buzzati: …come loro si vedevano, come lui si era ammalato… senza mai dire di che cosa è morto. Ho letto con attenzione perché era proprio quanto mi interessava: non ha mai detto l’età e di che cosa è morto. Tabù.

La decorazione è diventata un po’ così: è una osservazione da uomo della strada ma anche da uomo di mestiere. Ormai non riusciamo più a intendere la decorazione in senso positivo.

M.G.E. È anche una conseguenza delle teoresi ufficiali, cui tu prima accennavi, del MM sulle questioni della decorazione? Eppure alcuni maestri hanno continuamente riproposto, negli scritti e nelle opere, il tema della decorazione: Tessenow, ad esempio, declina il tema tra la costruzione come certezza e la decorazione come dubbio…

A.R. Che è una frase letteraria…

M.G.E. Comunque pone la questione ed il problema…

A.R. Prima tu hai scherzosamente detto, mostrando la tua collana, “io sono decorata”. Non vorrei fare lo psicanalista, ma quella frase fa parte di questo tabù della decorazione. Una donna dell’ottocento non avrebbe mai pensato, mettendosi una collana, di “decorarsi”…: metteva una collana che faceva semplicemente parte dell’abbigliamento della cultura femminile, e persino maschile. Questa deformazione esiste ed è comune. Se io mettessi un anello, ne avrei vergogna (in America macho normalissimi portano l’anello… ) Non è vero che la collana è una decorazione: e la tua giacca, allora?

È in questo senso che è perverso il saggio di Loos: tu ritorni al mito del selvaggio…

M.G.E. La decorazione come fatto di cultura. Può dunque la decorazione risultare uno strumento adeguato e praticabile per una architettura che, dopo le omologazioni del moderno, si voglia di nuovo “civile”…

A.R. Per essere civile una architettura deve esprimere il senso di un certo tipo di cultura, di educazione, di civiltà. A Milano, ad esempio, moltissimi palazzi neoclassici avevano delle colonne. Il mio studio di S. Maria alla Porta aveva delle magnifiche colonne di granito rosa… intonacate. La chiami decorazione questa? È il senso dell’architettura civile, per cui l’architetto che faceva le case dei sciuri  intonacava le colonne: un po’ come l’architettura greca. Io starei male ad intonacare una colonna di granito: eppure fior di architetti lo facevano… In seguito, però, non si è più potuto usare il granito perché divenuto costoso. Da quel momento la colonna in granito torna ad essere la vera decorazione, perché è anche una esibizione di ricchezza. Esattamente il contrario di quando tutti avevano le colonne in granito.

Venezia, 5 febbraio 1992

In alto: Aldo Rossi, Fermacarte "Sannazzaro", 1987, marmo, cm. 20 x 4 x 6 (www.upgroup.it). Sotto: Aldo Rossi (con M. Adjmi, T. Horiguchi, S. Uchida), Complesso alberghiero e ristorante "Il Palazzo", scalinata d'ingresso e facciata, 1987-89, Fukuoka.

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