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Il decoro degli ospedali

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«Perché l’edilizia ospedaliera contemporanea è così indecorosa?». È, questo, un interrogativo che viene posto più di frequente, e da più parti, di quanto non si pensi. Tempo addietro, fummo interpellati proprio su questo argomento da un appaltatore di lavori pubblici, che, nel corso della sua carriera imprenditoriale, aveva già costruito un’ottantina di edifici ospedalieri. Per motivi estranei sia alla nostra volontà, sia a quella dell’appaltatore, il progetto decorativo da noi elaborato in quell’occasione per un ulteriore, costruendo ospedale, non poté concretizzarsi. Ma poiché all’epoca avevamo affrontato la questione in tutte le sue molteplici sfaccettature, crediamo sia venuto il momento di ritornarvi con qualche riflessione.

L’edificio ospedaliero deve rispondere oggi ad una selva di normative, funzioni, specifiche sanitarie, che fanno sì che la sua forma finale sia sostanzialmente ipotecata, già in partenza, dalla sua particolare funzionalità: quella di offrire ricovero e cure, disciplinando i flussi dei pazienti, del personale e dei visitatori. Inoltre, trattandosi il più delle volte di un edificio di proprietà pubblica, la vicenda economico-finanziaria che porta alla realizzazione del complesso architettonico finisce quasi sempre col legarsi alla storia delle compagini politico-amministrative che si succedono in veste di committenti, con le accelerazioni repentine, gli arresti improvvisi e i mutamenti in corso d’opera che, di regola, ne conseguono. Già queste poche notazioni aiutano a capire come mai l’edificio multipiano, strutturato a torre, riscuota così tanti consensi, sia da parte dei progettisti, che ne apprezzano la semplicità funzionale, sia da parte dei committenti, attratti dai suoi requisiti di economicità.

Tuttavia, a differenza di quanto la vulgata modernista vorrebbe far credere, il megafabbricato di otto-dieci piani che è la risultante di questa prassi, benché funzionale sotto il profilo sanitario, risulta spesso obbrobrioso sotto quello architettonico ed urbanistico, ed opprimente in termini di vivibilità interna. Questo ordine di problemi è ormai ben chiaro agli addetti ai lavori, e molteplici sono stati i tentativi di porvi rimedio.

I progettisti particolarmente sensibili al prestigio esteriore del fabbricato, hanno più volte sperimentato quella che, con una similitudine alberghiera, si potrebbe definire la via del resort di lusso, proponendo, sia per le coperture sia per i corpi di fabbrica, forme ardite ed inusuali. Il bilancio di queste esperienze non può dirsi positivo. Da un lato, infatti, i costi medi sono andati lievitando, dall’altro, comodità e fruibilità degli spazi interni sono risultate penalizzate. In fin dei conti, non c’è degente che, posto di fronte ad una hall monumentale o ad altre mirabilia architettoniche, non vorrebbe barattarle con una configurazione interna più distensiva e con spazi più ariosi e rasserenanti.

Vincent Van Gogh, Corsia dell’ospedale di Arles, 1889, olio su tela, cm. 74 x 92, Collezione Oskar Reinhart, Winterthur.

Le necessità di coordinamento tra i vari servizi presenti all’interno di un ospedale sono tali, infatti, che i corridoi labirintici, le sale di attesa claustrofobiche, le cubature modeste degli ambulatori medici e delle stanze di degenza, sono ormai diventate la norma. Una norma – piaccia o non piaccia – ineludibile, giacché gli ampi padiglioni degli ospedali di un tempo sono del tutto inadatti alla medicina del giorno d’oggi. Questa necessita, al contrario, di una miriade di spazi ridotti, in cui ubicare le varie attività e strumentazioni di cui il polo ospedaliero dispone.

Non sono mancati nemmeno i tentativi per migliorare la qualità degli interni. Si è fatto sovente ricorso all’intervento di studenti di scuole d’arte, nella convinzione che l’autorevolezza culturale dell’istituzione scolastica e le doti individuali dei giovani artisti chiamati in causa sarebbero bastate a risolvere il problema. Ma la diffusa incompetenza nel campo della decorazione pubblica ha fatto sì che, nella generalità dei casi, corridoi e sale d’aspetto si riempissero di immagini naïf, sommarie e deformi, o, in alternativa, di riproduzioni di opere d’arte moderna, canoniche per gli studiosi e gli esperti, ma inappropriate come decori per ambienti ospedalieri. L’Urlo di Edward Munch – ci si passi l’esempio – è opera fondamentale per la sensibilità artistica novecentesca, ma nessuno la vorrebbe vedere riprodotta nel corridoio che conduce ad una sala operatoria.

Va nella stessa direzione anche la prassi, affermatasi di recente, della donazione di opere (soprattutto pittoriche) da parte di artisti o di gallerie. Tali opere sono più che dignitose se, dopo essere state ammirate in galleria, vengono poi acquistate per il salotto di casa, ma risultano il più delle volte incongrue rispetto all’ambiente ospedaliero, ed inappropriate al suo decoro. Il decoro ospedaliero non è infatti quello di rappresentanza, proprio del salotto borghese, privato, in cui il quadro d’autore, anche se non particolarmente felice, fa comunque sensazione, ma un decoro di vivibilità psicologica, proprio degli ambienti pubblici specificamente destinati alle cure mediche.

Una terza via, tuttora in corso di sperimentazione, è quella del cromatismo, ovvero di uno studio generale, finalizzato all’armonizzazione dei vari colori usati negli interni. È forse questo l’approccio che ha prodotto fin qui i migliori risultati, ma è pur sempre un pannicello caldo, laddove servono invece cure mirate e robuste. È un fatto senz’altro positivo se, in un corridoio lungo decine e decine di metri, il pavimento in gomma lavabile ed antiscivolo imposto dalla normativa sanitaria tende ad un delicato verde salvia anziché ad un saturo giallo canarino, ma ciò non basta a mitigare la sensazione di disagio connessa alla profondità prospettica del vano che si sta percorrendo.

Jacopo Pontormo, Episodio di vita ospedaliera, 1514, affresco staccato, cm. 91 x 150, Firenze, Gallerie dell’Accademia.

Riassumendo, le declinazioni del decoro ospedaliero sono essenzialmente due: la prima, esterna, è quella che consiste nel rendere decorosa una torre; la seconda, interna, consiste invece nel rendere vivibile un labirinto. Alle questioni estetiche vanno poi a sommarsi i ferrei vincoli logistici rappresentati dai costi e dalle normative sanitarie. Per tornare all’esempio di poco fa: se, in quanto artista decoratore, ho a mia disposizione molteplici opzioni, tutte ugualmente interessanti, per spezzare la sensazione di monotonia che si prova percorrendo un lungo corridoio, l’obbligo della pavimentazione in gomma sarà già di per sé sufficiente a far cadere la maggior parte di queste opzioni, vincolandomi ad un’ornatistica elementare, fatta di semplici motivi geometrici. “Semplice” è qui da intendersi come parola-chiave, in opposizione a “complesso”, poiché in questo caso la complessità è incompatibile con gli standard dei prodotti e le modalità industriali di esecuzione dei lavori.

Veniamo alle conclusioni. L’ornatistica di base – cioè linee rette, zig-zag, meandri, geometrie su base quadrata o a scacchiera – è la sola che riesca ad entrare in modo semplice, senza inconvenienti, in un cantiere ospedaliero contemporaneo, perché ne rispetta i tempi, i costi e le modalità costruttive. Ma proprio perché si tratta di ornatistica di base, per risultare efficace dev’essere ideata da un professionista del decoro. In altre parole, non basta disporre a caso quadratini o righe; l’insieme deve avere senso compiuto ed una disposizione complessiva che diano il risultato atteso, cioè l’armonica frammentazione percettiva del tutto. Si tratta quindi, nella genesi culturale come nei fini operativi, di un lavoro eminentemente artistico, che si avvale delle geometrie elementari solo ed unicamente come strumenti.

Sappiamo che l’arte rientra nel dominio della poiesis, concetto già ampiamente illustrato su questa stessa rivista 〈1〉. Tutto ciò che è poiesis pertiene alla sfera della poetica, il che, almeno in teoria, dovrebbe attagliarsi alla ricerca di un artista più che non a quella di un architetto. La precisazione non è fuori luogo, anche se è vero che, nell’età contemporanea, i confini tra le varie competenze sono molto confusi. L’architetto contemporaneo manca di una precisa formazione ornatistica, formazione che invece il suo collega d’inizio secolo poteva vantare, e così pure l’artista contemporaneo è privo di tale competenza, posseduta invece dai suoi colleghi in passato.

In ultima analisi, non basta intervenire sporadicamente, con generiche geometrie affidate unicamente al buon gusto e all’estro dell’architetto o dell’artista di turno. Occorre procedere sistematicamente, con solidi apparati decorativi, basati su una ornatistica elementare, che assolvano a tutte le funzioni sopra accennate, in un quadro generale di armonica poiesis. Si tratta insomma – per chiudere con una battuta – di un lavoro da specialisti.

〈1〉 Vedi M. Lazzarato, Poiesis e techne, 19 febbraio 2018, e Arte del fare e arte del creare, 14 agosto 2018.

In alto: Frans Hals, I reggenti dell'ospedale di Santa Elisabetta ad Haarlem (particolare), 1641, olio su tela, cm. 153 x 252, Frans Hals Museum, Haarlem. Sotto: Canaletto, Veduta del Greenwich Hospital dalla riva settentrionale del Tamigi, 1753 circa, olio su tela, cm. 66 x 112,5, Greenwich, National Maritime Museum.

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