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Nutrire il pianeta

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I commentatori delle prime Esposizioni Universali, a partire da quella londinese del 1851, lasciarono testimonianze preziose per chi voglia capire a quali valori estetici ed etici, a quale decoro, gli uomini di allora intendessero affidare il ricordo da tramandare alle future generazioni. La situazione è oggi molto diversa: la natura immateriale e sfuggente del panorama visivo che ci circonda, la tecnologizzazione degli oggetti e dei segni, anche i più semplici, sembrerebbero rendere inutile ogni tentativo di classificazione, ogni confronto. Ma l’Expo che ha appena chiuso i battenti a Milano offre svariati motivi per non abdicare. Complice di questo è forse il tema stesso di Expo 2015. Nella sua genericità, “Nutrire il pianeta” si è infatti rivelato, di fatto, nulla più (e nulla meno) che un pretesto per lasciare ciascun espositore libero di raccontarsi, proprio come quando tra sconosciuti si parla del tempo o, appunto, di cucina: ognuno dice senza troppe remore cosa gli piace di più, se il dolce o il salato, il crudo o il cotto, senza sentirsi in dovere di rivelare nulla di troppo personale. In questo giocare a carte scoperte, ogni soggetto non ha potuto che dare il meglio di se stesso. Alcune linee di tendenza sono così emerse per forza propria, quasi preterintenzionalmente. Vediamo qualche esempio.

C’è stata l’Expo di una serie di paesi più o meno “emergenti”, oggi proiettati in primo piano dalle proprie risorse naturali e dalla propria posizione geopolitica – come la Turchia, l’Angola, il Turkmenistan – i cui padiglioni sprizzavano colore locale, esibendo i pattern dei tappeti, dei tessuti, delle architetture tradizionali, le vetrine colme di oggetti, con un’aggressività ed una convinzione molto vitali, di cui lo smaliziato occidente, fin troppo smart e social, non si ricorda ormai più. C’è stata l’Expo delle introspezioni a oltranza, delle nazioni e micronazioni che si direbbero misteriosamente condannate ad assomigliare sempre a se stesse. Vengono in mente Slovacchia e Repubblica Ceca, più che mai gemelle nello riempire i propri padiglioni di automi, pupazzi, meccanismi riecheggianti un certo clima kafkiano e surrealista che, se non fossero loro stesse a proporlo come specchio della propria identità, non si esiterebbe a definire un luogo comune ormai consunto. C’è stata l’Expo dei paesi che si direbbero invece condannati ad assomigliare sempre a tutti o a nessuno, in un’assimilazione-mimetizzazione perenne, che, nel suo genere, è comunque notevole. E qui si pensa all’Italia, il cui padiglione rivestito di pannelli ultraleggeri di cemento sintetico è sì spettacolare, ma riprende pressoché alla lettera il cosiddetto “nido d’uccello”, lo Stadio Nazionale costruito a Pechino per i giochi della XIX olimpiade. Uno stadio che, tra l’altro, qualcosa di italiano ce l’ha per davvero, poiché dal 2009 ad oggi ha già ospitato, in mondovisione, svariate edizioni della nostra Supercoppa di Calcio. C’è stata l’Expo delle aree tematiche e delle grandi aziende, con sperimentazioni suggestive ed efficaci nel coniugare un uso oculato dei materiali e delle tecnologie con una gestione sapiente delle strutture ornamentali: da notare, su piani opposti e complementari, il padiglione Enel e il padiglione Zero. C’è stata poi l’Expo, assolutamente ubiquitaria ma con una significativa predominanza nei padiglioni delle massime potenze economico-militari mondiali, intenta a sciorinare interminabili video di argomento agrituristico, paesaggistico e culturale, messi in loop su giganteschi schermi ultrapiatti. E alla prova dei fatti, se qualcosa di datato si è visto fin troppo in questa kermesse, erano proprio i video che scivolavano via nella disattenzione generale, come una carta da parati che non vuol saperne di stare attaccata al muro.

In alto: mappamondo (particolare), inizi secolo XX. Sotto: padiglione Angola, Expo 2015.

 

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