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Nozioni isterico-artistiche di progresso e di cultura

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Deliziosamente ironico fin dal titolo, "Art Hysterical Notions of Progress and Culture" apparve nel 1978 su "Heresies", rivista di arte e politica fondata a New York da un prestigioso collettivo di artiste e intellettuali femministe. Coi ventisette numeri tematici pubblicati tra il 1977 e il 1993, "Heresies" fu una delle realtà più vivaci nel panorama statunitense di fine secolo XX, e molti degli interrogativi che essa sollevava risultano ancor oggi centrali nel dibattito internazionale in materia di diritti civili e di relazioni culturali e sociali, dentro e fuori il perimetro femminista. Tra questi interrogativi, quello circa il ruolo delle pratiche ornamentali ha acquisito, nei quarantacinque anni trascorsi da quel 1978, crescente importanza. Ne hanno preso atto gli artisti e gli architetti che, per uscire dalle secche di un avanguardismo ormai sterile, non hanno potuto fare a meno di recuperare elementi linguistici propri delle tradizioni decorative e dell'artigianato. Parallelamente, anche tra gli storici e i critici d'arte si è fatta strada l'idea che occorreva colmare il vuoto di attenzione che il '900 aveva fatto registrare nei confronti di quelle problematiche.
 
Nell'arco cronologico compreso fra il 1975 e il 1985, le due autrici del saggio, le pittrici Valerie Jaudon e Joyce Kozloff, sono state esponenti di rilievo del movimento "Pattern & Decoration", che si affermava con l'apporto fondamentale della Holly Solomon Gallery di New York, e la partecipazione di artisti provenienti da ogni parte degli Stati Uniti. Da allora fino ad oggi, le ricerche di Jaudon e Kozloff si sono evolute nella direzione più propizia a una riscoperta della decorazione: dunque, elaborando non solo opere su tela e altri supporti mobili, ma anche progetti di arte pubblica da inserire nei contesti architettonici e urbanistici, misurandosi con ambiti espressivi quali il mosaico, il rivestimento ceramico, la pavimentazione lapidea, il design, l'arredo urbano. Un merito fondamentale di questo loro scritto sta nell'avere mostrato, in netto anticipo sui tempi, come, nella moderna civiltà occidentale, il rifiuto della decorazione abbia proceduto di pari passo con la rimozione di tutto ciò che - in ossequio a una visione semplicistica della tecnologia e del progresso - appariva marginale, diverso, nostalgico, non abbastanza competitivo. È esemplare l'approccio con cui le autrici interrogano i testi degli artisti, storici e critici chiamati in causa. Un approccio senza complessi di inferiorità, che mette a confronto personalità diversissime per fare emergere le omologie che le collegano, ma al tempo stesso invita il lettore ad approfondire da sé le singole questioni, per orientarsi nei labirinti e nei giri viziosi che la storia sempre propone. 

Già questa è una constatazione di cui dobbiamo essere grati a Jaudon e Kozloff: la concatenazione di eventi (artistici e non) che fino a qualche decennio fa, conformemente alle profezie moderniste, sembrava rettilinea e univoca, oggi somiglia piuttosto a un meandro, a un fregio dall'andamento tortuoso. Le dinamiche innescate dal "secolo breve" - come più tardi Eric J. Hobsbawm ebbe a definire il '900 - sono ancor oggi in pieno svolgimento: di Jaudon e Kozloff colpisce la tempestività con cui, dal proprio osservatorio di artiste, ne hanno iniziato l'analisi, offrendone una visione aperta, non fideistica. Per l'edizione originale del saggio, vedi V. Jaudon, J. Kozloff, "Art Hysterical Notions of Progress and Culture", in "Heresies", n. 4, 1978, pp. 38-42. La traduzione dall'inglese è di Esther Di Raimo. I testi citati vengono riproposti, ove già tradotti in lingua italiana, nella versione o in una delle versioni esistenti. La bibliografia e la scelta delle immagini che corredano questa edizione italiana sono di Enrico Maria Davoli. Un sentito ringraziamento a Valerie Jaudon e Joyce Kozloff, per avere autorizzato la traduzione e la pubblicazione del loro scritto.

Come femministe e artiste che esplorano il decorativo nei propri dipinti, ci incuriosiva l’uso squalificante della parola “decorativo” nel mondo dell’arte contemporanea. Rileggendo i testi essenziali dell’arte contemporanea, ci siamo rese conto che il pregiudizio contro il decorativo ha una lunga storia e si fonda su gerarchie: il primato delle belle arti sulle arti decorative, dell’arte occidentale sull’arte non-occidentale, dell’arte maschile sull’arte femminile. Nel prendere in esame queste gerarchie, ci siamo imbattute in uno sconcertante sistema di credenze basato sulla superiorità morale dell’arte della civiltà occidentale.

Abbiamo voluto scrivere un saggio sul modo in cui il linguaggio è stato usato per far passare questa superiorità morale. Vi sono parole che sono state tramandate in modo acritico da una generazione all’altra. Avvertivamo la necessità di sottrarle al contesto dell’arte per esaminarle e decodificarle. Esse hanno dato alla nostra storia, alla nostra formazione artistica, una coloritura particolare. Abbiamo dovuto ripensare gli assunti di fondo della nostra educazione.

In campo storico-artistico, per caratterizzare la cosiddetta “arte alta” si usano continuamente queste parole: uomo, genere umano, individuo, individualità, esseri umani, umanità, figura umana, umanesimo, civiltà, cultura, greci, romani, inglesi, cristianità, spiritualità, trascendenza, religione, natura, forma pura, scienza, logica, purezza, evoluzione, rivoluzione, progresso, verità, libertà, creatività, azione, guerra, virilità, violenza, brutalità, dinamismo, potere e grandezza.

Negli stessi testi, in relazione alla cosiddetta “arte bassa” ricorrono altre parole: africani, orientali, persiani, slovacchi, contadini, classi popolari, donne, bambini, selvaggi, pagani, sensualità, piacere, decadenza, caos, anarchia, impotenza, esotismo, erotismo, artificio, tatuaggi, cosmetici, ornamento, decorazione, tappeti, tessitura, pattern, vita domestica, carta da parati, tessuti e mobilio.

Tutte queste parole appaiono nelle citazioni che corredano questo saggio. Le citazioni sono tratte dagli scritti e dalle dichiarazioni di artisti, critici e storici dell’arte. Non aspiriamo alla neutralità, né prestiamo attenzione al contesto storico che fa da sfondo alle citazioni. Di esse danno conto le storie dell’arte moderna esistenti. La nostra analisi si pone in una prospettiva personale e contemporanea.

Guerra e virilità

I manifesti dell’arte moderna esortano spesso gli artisti a operare in modo violento e brutale, e non è un caso che a uomini come Hirsch, Rivera e Picasso piaccia pensare alla propria arte, metaforicamente, come a un’arma. Tra i principali bersagli di quest’arma vi è il decorativo. Il disprezzo per la decorazione è un’epitome del machismo di Le Corbusier, Gabo/Pevsner e Marinetti/Sant’Elia. La loro bellicosità può assumere la forma di un appello all’estetica della macchina: la macchina viene idoleggiata in quanto strumento e simbolo di progresso, e al progresso tecnologico deve corrispondere un’arte riduttiva e stilizzata. L’istinto purificatore esalta un ordine che non viene mai descritto e condanna un caos che non viene mai spiegato.

Joseph Hirsch, cit. in Americans 1942: 18 Artists from 9 States, 1942:
«Il grande artista […] ha brandito la propria arte come un’arma magnifica, ben più potente della spada […]».

Diego Rivera, The Revolutionary Spirit in Modern Art, 1932:
«Voglio usare la mia arte come un’arma».

Pablo Picasso, La pittura non è fatta per decorare appartamenti, 1945:
«No, la pittura non è fatta per decorare gli appartamenti. È lo strumento di una guerra offensiva e difensiva contro il nemico».

Le Corbusier, Urbanistica, 1925:
«L’arte decorativa è morta. […] Una trasformazione d’immensa portata, sbalorditiva, impressionante, ha tagliato i ponti con il passato».

Naum Gabo e Anton Pevsner, Basic Principles of Contructivism, 1920:
«Noi rifiutiamo la linea decorativa. Noi esigiamo che ogni linea nel lavoro artistico debba servire esclusivamente per definire la forza interna del corpo rappresentato».

Filippo Tommaso Marinetti e Antonio Sant’Elia, L’architettura futurista, 1914:
«Bisogna abolire il decorativo. […] Buttiamo all’aria monumenti, marciapiedi, porticati, gradinate, sprofondiamo le strade e le piazze, innalziamo il livello delle città».

El Lisitskij, Sovrastruttura ideologica, 1929:
«Distruzione della tradizione. […] Prende corso la lotta contro l’estetica del caotico. Si richiede un ordine divenuto consapevolezza».

Manifesto dei pittori futuristi, 1910:
«Siano sepolti i morti nelle più profonde viscere della terra! Sia sgombra di mummie la soglia del futuro! Largo ai giovani, ai violenti, ai temerari!».

Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Ugo Piatti, Manifesto interventista, 1914, cm. 29 x 46 (Internet Archive/Wikimedia).
Purezza

Nelle polemiche dell’arte moderna, la “purezza” rappresenta il bene supremo. Quanto più gli elementi costitutivi dell’opera d’arte si contraggono e si riducono, tanto più evidente è la “purezza”. Greenberg equipara il riduttivismo alla razionalità e alla funzione. Ma nessuno spiega perché o per chi l’arte debba essere funzionale, o perché sia funzionale il riduttivismo. In artisti diversissimi come Sullivan, Ozenfant e Motherwell, troviamo la metafora sessuale dello “spogliare” l’arte e l’architettura per renderle “nude” o “pure”. L’assunto di fondo è che l’artista è maschio, l’opera d’arte (l’oggetto) femmina.

Clement Greenberg, Detached observations, 1976:
«Se l’esperienza del valore estetico è il fine estremo dell’arte, allora a tal fine bisogna che l’arte sia messa completamente a nudo. Di qui il “funzionalismo”, ovvero “essenzialismo”, modernista, l’impulso a “purificare” il medium, qualunque medium. Intendendo per “purezza” l’impiego più efficace, efficiente ed economico del medium ai fini del valore estetico».

Louis Sullivan, L’ornamento in architettura, 1892:
«[…] sarebbe veramente un bene per l’estetica se ci astenessimo completamente dall’uso dell’ornamento per un certo periodo di anni, affinché la nostra mente possa concentrarsi sagacemente sulla produzione di edifici ben formati e piacevoli nella loro nudità».

Amédée Ozenfant, Foundations of Modern Art, 1931:
«La decorazione può essere orribile, ma un corpo nudo ci commuove con l’armonia della sua forma».

Robert Motherwell, What Abstract Art Means to Me, 1951:
«Uno degli aspetti più sorprendenti dell’arte astratta è la sua essenzialità, un’arte messa a nudo».

Amédée Ozenfant, Virgo consolatrix, illustrazione per la rivista “L’Élan”, dicembre 1915.
Purezza in arte come santa causa

La purezza può anche assurgere a principio estetico. Capita che gli artisti moderni e i loro sostenitori si presentino come i nuovi crociati, intenti ad affermare istanze atemporali o religiose. Emendare l’arte è uno dei temi più ricorrenti. La metafora ecclesiastica della trascendenza tramite la purificazione (il battesimo) serve ad avvalorare la tradizione “greca” (come in Van de Velde) o la tradizione “cristiana” (come in Loos). Lindore e purificazione possono fare il paio con l’elevazione dell’artista al rango di dio, come quando Apollinaire auspica di “divinizzare la personalità”.

Henry van de Velde, Appunti per una conferenza [Programma], 1903:
«Ma non appena sarà terminato il lavoro di ripulimento e di sgombero, non appena sarà riapparsa alla luce la vera forma delle cose, allora bisognerà impegnarsi a perseguire il perfezionamento di questa forma, con la stessa pazienza, con lo stesso spirito, con la stessa logica dei greci».

Adolf Loos, Ornamento e delitto, 1908:
«Noi abbiamo superato l’ornamento, con fatica ci siamo liberati dall’ornamento. Guardate, il momento si approssima, il compimento ci attende. Presto le vie delle città risplenderanno come bianche muraglie! Come Sion, la città santa, la capitale del cielo. Allora sarà il compimento».

Guillaume Apollinaire, I pittori cubisti, 1913:
«Stimare la purezza è battezzare l’istinto, è umanizzare l’arte e divinizzare la personalità».

Tomba di Adolf Loos, Vienna, Cimitero centrale. 
Superiorità dell’arte occidentale

La letteratura artistica occidentale non manca di assunti razzisti, svalutativi nei confronti delle arti di altre culture. Vengono presi a modello, in un ideale ariano di ordine, gli antichi greci. Nella tradizione greco-romana, si concepisce l’arte come rappresentativa di valori più alti. Malraux usa la parola “barbaro” e Fry la parola “selvaggi” per parlare dell’arte e degli artisti estranei alla nostra tradizione. Gli ideali non-occidentali di piacere, meditazione e perdita del sé risultano incomprensibili agli assertori dell’ego, della trascendenza e del dinamismo.

David Hume, I caratteri nazionali, 1748:
«Non c’è mai stata una nazione civile di carnagione diversa da quella bianca, e neppure qualche singolo individuo non bianco che abbia eccelso nell’azione o nel pensiero. Fra di loro, non troviamo né abili artigiani, né arti, né scienze».

Roger Fry, L’arte dei Boscimani, 1910:
«[…] bisogna notare comunque che tutti i popoli i cui disegni mostrano questo particolare potere di visualizzazione sono considerati come i selvaggi più barbari: essi sono, comunque, i meno suscettibili di civilizzazione, e i Boscimani sud-africani sono considerati, dalle altre razze indigene, alla stessa stregua con cui noi consideriamo i negri».

André Malraux, Il museo dei musei, 1953:
«Ora, un’arte selvaggia non si mantiene che nella selvatichezza di cui è l’espressione […].»
«[…] per l’Occidente, lo stile bizantino non fu l’espressione di un valore supremo, ma uno strumento di decorazione.»

Roger Fry, La mostra di arte islamica a Monaco, 1910:
«Non si può negare che, col tempo, essa [l’arte islamica] indulse al difetto principale dell’artefice orientale, cioè ad un’intollerabile pazienza e attività inconsiderate […].»

Gustav von Grunebaum, Medieval Islam, 1946:
«È difficile definire creativo l’Islam nel senso in cui furono creativi i Greci nel quinto e quarto secolo avanti Cristo o l’Occidente dal Rinascimento in poi, ma il suo fascino è indiscutibile […]».

Sir Richard Westmacott, professore di scultura, Royal Academy (cit. in F. Haskell, Riscoperte nell’arte, 1977):
«[…] ritengo impossibile che un artista purchessia possa assumere i marmi di Ninive a opera degna di studio. È ovvio che non lo sono. Si tratta di opere d’arte tradizionale, come quelle egiziane. A nessuno potrebbe passare per la testa di applicarsi allo studio dell’arte egiziana».

Adolf Loos, Ornamento e delitto, 1908:
«Nessun ornamento può più essere inventato oggi da chi vive al nostro livello di civiltà».
«Altrimenti avviene per quegli uomini e quei popoli che non hanno ancora raggiunto questo livello».
«Sopporto gli ornamenti dei Cafri, dei Persiani, della contadina slovacca, gli ornamenti del mio calzolaio, poiché essi non possiedono alcun altro mezzo per esprimere se stessi nel modo più elevato. Noi possediamo l’arte che ha eliminato l’ornamento. Noi ci trasciniamo nell’affanno quotidiano e ci affrettiamo per andare ad ascoltare Beethoven o ad assistere al Tristano».

Augustus Francis Sherman, Emigrante slovacca con figli all’arrivo a Ellis Island, fotografia,1906-14, New York, New York Public Library (NYPL/ Wikimedia).
Fobia della contaminazione razziale, impotenza e decadenza

Razzismo ed esotismo sono come le due facce della stessa medaglia. La fascinazione per l’oriente, gli indiani, gli africani e i primitivi sottende spesso un inconfessabile timore di infiltrazione, decadenza e dominazione ad opera dei “meticci” che si affollano impazienti alle porte della civiltà. Gli oggetti ornamentali di altre culture che fecero la loro comparsa in Europa nel diciannovesimo secolo erano indubitabilmente superiori ai prodotti occidentali lavorati a macchina. Come poteva l’Occidente restare convinto della propria superiorità razziale al cospetto di questi oggetti? Ecco la soluzione di Loos: dichiarare selvaggio l’ornamento in quanto tale. Gli artisti e gli esteti incapaci di resistere agli impulsi decorativi erano da considerarsi impotenti e/o decadenti.

Adolf Loos, Ornamento e delitto, 1908:
«Io ho scoperto e donato al mondo la seguente nozione: l’evoluzione della civiltà è sinonimo dell’eliminazione dell’ornamento dall’oggetto d’uso. Credevo di portare con questo nuova gioia nel mondo, ma esso non me ne è stato grato. Tutti ne sono stati tristi e hanno chinato il capo. Provavano un senso di oppressione di fronte all’idea che non si possa più produrre un ornamento nuovo. Ma come, ciò che può fare ogni negro, che hanno potuto fare tutti i popoli e tutti i tempi prima di noi, è precluso soltanto a noi, uomini del secolo diciannovesimo? Tutto ciò che l’umanità ha creato senza ornamenti nei millenni passati è stato gettato via senza riguardo e votato alla distruzione. Noi non possediamo più nessun banco da falegname dell’età carolingia, ma qualsiasi cianfrusaglia che recasse anche il minimo ornamento è stata raccolta, ripulita e palazzi sontuosi sono stati costruiti per ospitarla. E allora gli uomini si aggiravano tristi tra le vetrine e si vergognavano della loro impotenza».

Amédée Ozenfant, Foundations of Modern Art, 1931:
«Vigiliamo affinché il premere vigoroso dei popoli più giovani non ci releghi nella necropoli delle nazioni effeminate, come fece la potente Roma coi dilettanti della decadenza greca, o i Galli nella Roma esausta».
«Dati molti leoni e poche pulci, i leoni non sono in pericolo; ma quando le pulci si moltiplicano, quanto è miserevole il destino dei leoni!»

Albert Gleizes, Jean Metzinger, Du “Cubisme”, 1912:
«Dal momento che in arte la spiegazione di ogni assillo è nel materiale impiegato, l’assillo decorativo, se lo troviamo in un pittore, va giudicato come un artificio anacronistico, utile solo a dissimulare la sterilità.»

Maurice Barrés (sui pittori italiani prerinascimentali), 1897 (cit. in A. Malraux, Il museo dei musei):
«Mi spiego che alcuni poeti smaniosi d’arcaismo, i quali, per conseguire una più gentile gracilità, atrofizzano in sé stessi i sentimenti, si compiacciano della povertà e della meschineria di questa gentucola».

Inaugurazione del monumento a Maurice Barrés al Signal de Vaudemont, Sion, in uno scatto fotografico dell’agenzia stampa Meurisse, 1928 (Gallica/BNF).
Razzismo e sessismo

Accenti razzisti e sessisti sono parte della stessa mentalità. A volte li si ritrova insieme nella stessa frase, inconsciamente appaiati, come quando Read equipara tatuaggi e cosmetici. Il tatuaggio rimanda a costumi strani e inquietanti, praticati in luoghi lontani e da popoli misteriosi. La cosmesi, in quanto ornamentazione di sé, diviene sinonimo di autoreificazione e di inferiorità (Schapiro). Razzismo e sessismo sono una barriera contro l’energia e la vitalità sprigionate dagli “altri”. Essendo la nudità attributo tradizionale della donna, quale oggetto del desiderio maschile, ecco che Malevič associa il nudo femminile alla barbarie.

Herbert Read, Arte e industria, 1953:
«Ogni ornamentazione dovrebbe essere considerata come sospetta. Sono del parere che una persona veramente civile preferirebbe tatuare il proprio corpo che ricoprire la forma di un’opera d’arte autentica con un’ornamentazione insignificante. L’unica giustificazione valida per una decorazione è che, in qualche maniera, essa dovrebbe sottolineare la forma. In effetti io considero un ornamento legittimo solo quello che, come il rossetto o il neretto, può, se applicato con discrezione e discernimento, rendere più precisi i contorni d’una bellezza già esistente».

Adolf Loos, Ornamento e delitto, 1908:
«Il bambino è amorale. Anche il Papua lo è, per noi. Il Papua uccide i suoi nemici e se li mangia. Non è un delinquente. Se però l’uomo moderno uccide e divora qualcuno, è un delinquente o un degenerato. Il Papua copre di tatuaggi la propria pelle, la sua barca, il suo remo, in breve ogni cosa che trovi a portata di mano. Non è un delinquente. Ma l’uomo moderno che si tatua è un delinquente o un degenerato. Vi sono prigioni dove l’ottanta per cento dei detenuti è tatuato. Gli individui tatuati che non sono in prigione sono delinquenti latenti o aristocratici degenerati. Se avviene che un uomo tatuato muoia in libertà, significa semplicemente che è morto qualche anno prima di aver potuto compiere il proprio delitto».

Meyer Schapiro, The Social Bases of Art, 1936:
«Una donna appartenente a questa classe [superiore] è essenzialmente un’artista, al pari dei pittori che potrebbero avere il suo patrocinio. La sua vita quotidiana è intrisa di scelte estetiche; compra abiti, ornamenti, mobili, decorazioni per la casa; continuamente si riorganizza come oggetto estetico.»

Kazimir Malevič, Manifesto suprematista Unovis, 1924:
«[…] non vogliamo essere come quei negri ai quali la civiltà inglese regalò l’ombrello e il cilindro, e non vogliamo che le nostre donne, nell’abito di Venere, si aggirino nude come selvagge!».

Ivan Bloch, The Sexual Life of Our Time, 1907:
«[… la donna] predilige l’ambiente in cui vive, il prodotto finito, il decorativo, l’individuale e il concreto; l’uomo, invece, è più incline alle distanze, a ciò che è in via di costruzione o di crescita, all’utile, al generale e all’astratto».

Lev Tolstoj, Che cos’è l’arte?, 1898:
«L’arte autentica non ha bisogno di abbellimenti, come la moglie di un uomo innamorato. L’arte contraffatta, come una prostituta, deve sempre essere adornata».

Kazimir Malevič, Quadrato nero, 1915, cm. 79,5 x 79,5, Mosca, Galleria Tretyakov (Galleria Tretyakov/Wikimedia).
Gerarchia alto-basso in arte

Se le “belle arti” prodotte dai maschi occidentali vengono reputate superiori a ogni altra forma d’arte dagli addetti ai lavori, allora le arti praticate dai popoli non occidentali, dalle classi subalterne e dalle donne sono da reputare “minori”, “primitive”, “popolari” eccetera. Una nuova e più sottile via per fare assurgere gli artisti a una posizione privilegiata, consiste nell’identificare il loro lavoro con le “scienze pure”, la “matematica pura”, la linguistica e la filosofia. Il mito secondo il quale le belle arti sono per pochi eletti, consente alla gerarchia di perpetuarsi, tra le arti così come tra le persone.

Clement Greenberg, Avanguardia e Kitsch, 1939:
«Si obietterà che un’arte per le masse come l’arte popolare fu sviluppata in condizioni di produzione rudimentali e che una gran quantità di arte popolare è di alto livello. È vero, ma l’arte popolare non è Atene, ed è Atene che vogliamo: la cultura formale con la sua infinità di aspetti, il suo rigoglio e la sua ampia portata».

H.W. Janson, Storia dell’arte, 1962:
«[…] infatti le arti applicate sono profondamente legate alla vita quotidiana e vengono quindi a contatto con un pubblico ben più vasto che la pittura e la scultura. Scopo delle arti applicate – la stessa espressione lo suggerisce – è di abbellire ciò che è utile, scopo importantissimo e indubbiamente onorevole ma meno elevato di quello cui s’ispira l’arte pura e semplice».

Amédée Ozenfant, Foundations of Modern Art, 1931:
«Se continueremo a tollerare che le arti minori si considerino uguali alla Grande Arte, saremo ben presto sommersi da ogni sorta di mobilio domestico. Ognuno al suo posto! I decoratori nei grandi magazzini, gli artisti al piano superiore, diversi piani più sopra, il più in alto possibile, sui pinnacoli, ancora più in alto. Tuttavia, allo stato attuale non è raro che si incontrino tutti sul pianerottolo, poiché i decoratori si sono accodati agli artisti, e molti artisti si sono abbassati al livello di decoratori».

Le Corbusier (Pierre Jeanneret) e Amédée Ozenfant, Dopo il cubismo, 1918:
«Vi è una gerarchia nelle arti: l’arte decorativa sta in basso, la figura umana all’apice».
«Siamo uomini.»

André Malraux, Il museo dei musei, 1953:
«Nel tappeto, il disegno è tutto astrazione: non il colore. Finiremo forse per scoprire, tra non molto, che chiamiamo decorativa tutta quest’arte perché, per noi, è senza storia, senza gerarchia e senza significato? Forse la riproduzione a colori saprà ordinare, classificare, e liberare dal guazzabuglio dei mercati levantini l’opera capitale, come la scultura negra è stata separata dai feticci da bazar; saprà forse strappare l’Islam al folclore turco come alla colonia, e dare il suo posto – minore, non perché il tappeto non rappresenti l’uomo, ma perché non lo esprime – all’ultima immagine dell’Oriente eterno».

Barnett Newman, The Ideographic Picture, 1947 (a proposito dell’artista Kwakiutl):
«La forma astratta che utilizzava, tutto il suo linguaggio plastico, rispondeva a una volontà ritualistica di comprensione metafisica. Le realtà quotidiane le aveva lasciate ai produttori di giocattoli; il piacevole gioco di motivi non oggettivi alle cestaie».

Ursula Meyer, Conceptual Art, 1972:
«Allo stesso modo in cui la scienza è per gli scienziati e la filosofia per i filosofi, l’arte è per gli artisti».

Joseph Kosuth, Introductory Note by the American Editor, 1970:
«In un certo senso, quindi, l’arte è diventata “seria come la scienza o la filosofia”, che non hanno nemmeno un pubblico».

Fotografia riproducente un abito in corteccia di cedro con maschera a testa di corvo da indossare in occasione dei rituali Hamatsa, da F. Boas, “The social organization and the secret societies of the Kwakiutl indians”, in “Report of the U.S. National Museum”, 1895, tavola 31.
Umanesimo: una vecchia storia

Umanesimo si definiva, a suo tempo, una dottrina radicale ostile all’autorità della chiesa, ma nella nostra società secolarizzata la parola si è sempre più identificata con la difesa di un’idea tradizionale di “umanità” e col mantenimento dello stato di cose presente. I “valori umani” di cui, in base a tali orientamenti, l’arte dovrebbe farsi carico, rispondono o a un ventaglio tematico ben preciso, o a una ben precisa idea, dell’espressività “umana”. In assenza di contenuti umanistici, l’ornamento, il pattern e le modalità di produzione rituali o decorative vengono condannate in quanto inumane, estranee e vuote. “Il campo dell’arte decorativa, dice Malraux, è determinabile con precisione soltanto in un’arte umanista”. Semmai, dovremmo dire che la nozione di “umanesimo” riguarda solo una piccola parte del mondo dell’arte, che per tutto il resto è non-occidentale e decorativo. Perché mai si dovrebbero preferire le false separazioni operate da questi commentatori sulla base di stereotipi etnici, a una consapevolezza storica dell’interdipendenza di tutte le culture “umane”?

Camille Mauclair, La Réforme de l’art décoratif en France, 1896:
«L’arte decorativa ha per estetica e per effetto di far pensare non all’uomo, ma a un ordine di cose da lui organizzato: è un’arte descrittiva e deformante, un insieme di fenomeni la cui essenza consiste nell’esser visti».

Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, 1954:
«Pittura e scultura sono affermazioni autosufficienti sulla natura dell’esistenza umana, e quindi si riferiscono a tale esistenza in tutti i suoi aspetti essenziali. Presentato come opera d’arte, l’ornamento diventa il paradiso degli stolti, dove tragedia e scontro sono ignorati e regna una pace accomodante».

Hilton Kramer, The Splendors and Chill of Islamic Art, 1975:
«[…] per chi fra noi cerca nell’arte qualcosa in più di un bagno di sensazioni piacevoli, gran parte di ciò che [l’ala islamica del Metropolitan Museum] ospita è francamente estraneo alle aspettative della sensibilità occidentale».
«Forse, col passare del tempo, l’arte islamica ci apparirà meno estranea di quanto non lo sia oggi. Ma francamente ne dubito: ci sono troppe, fondamentali differenze di spirito da superare».
«[…] ben poco spazio è invece concesso a ciò che, nell’immaginario occidentale, ha un rilievo primario: l’individualizzazione dell’esperienza».

Sir Thomas Arnold, Painting in Islam, 1928:
«[…] il pittore era disposto a dedicare ore di lavoro alle delicate venature delle foglie di un albero […] ma non gli è sovvenuto di dedicare altrettante cure e sforzi ai volti dei personaggi […] evidentemente gli è bastato il bellissimo effetto decorativo così ottenuto».

André Malraux, Il museo dei musei, 1953:
«Il campo dell’arte decorativa è determinabile con precisione soltanto in un’arte umanista».
«Questo individualizzarsi del destino, questa traccia di un dramma particolare su ogni viso, doveva risparmiare all’arte occidentale di divenire simile sia al mosaico bizantino sempre trascendente, sia alla scultura buddista ebbra d’unità».
«Come avrebbero potuto un egiziano, un assiro, un buddista, raffigurare il loro dio crocifisso se non distruggendo il proprio stile?».

Arte indiana del Deccan, Destriero mistico (“Burāq”) in forma composita, pagina miniata, 1770 circa, cm. 26 x 38, New Delhi, National Museum (Wikimedia).
Decorazione e vita domestica

Antitetica alla violenza e alla distruzione idolatrate dall’arte moderna, è l’identità visiva dell’ambiente domestico. (Se all’umanesimo corrisponde il dinamismo, allora il decorativo non può che essere sinonimo di stasi). Un espediente usato dal “modernismo” per gettare discredito sugli oppositori consiste nel paragonare le loro opere ai tappeti e alla carta da parati. Non avendo rapporto con la “forma umana” o il “mondo reale”, l’opera d’arte è da stigmatizzare come decorativa (Sedlmayr e Barnes/de Mazia). Arte decorativa non è che un nome in codice per “umanesimo mancato”. Artisti come Gleizes e Kandinskij riconducono il proprio lavoro, pur di sottrarsi allo stigma del decorativo, a qualche remota aspirazione umanistica.

Aldous Huxley a proposito di Cattedrale di Pollock, 1947:
«Si direbbe lo studio per una carta da parati da applicare tutt’intorno alle pareti».

Wyndham Lewis, Picasso, 1940 (sulla Minotauromachia):
«[…] questo confuso, debole, riccamente decorato, romantico tappeto».

“The Times” di Londra, recensione su Whistler, 1875:
«[…] questi quadri sembrano arte, appena un po’ di più di quanto non lo sembri la delicata gamma cromatica di una carta da parati».

Hans Sedlmayr, Perdita del centro, 1948:
«[…] nelle opere di Matisse, la figura dell’uomo non avrà un’importanza maggiore di quella che si dà a un disegno per carta da parati».

Albert Barnes e Violette de Mazia, The Art of Cézanne, 1939:
«Il pattern pittorico, che in Cézanne è uno strumento strettamente subordinato all’espressione di valori inerenti il mondo reale, diviene l’esclusivo contenuto estetico del cubismo, e questa degradazione della forma impedisce alla pittura cubista di attingere livelli superiori a quello della decorazione».

Albert Gleizes, Opinion (sul Cubismo), 1913:
«Vi è un certo coefficiente di imitazione che ci consente di verificare la legittimità delle nostre scoperte, di non ridurre l’immagine al mero valore ornamentale di un arabesco o di un tappeto orientale, e di conseguire una varietà infinita, altrimenti impossibile.»

Vasilij Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, 1912:
«Se però cominciassimo già oggi a sciogliere il nodo che ci lega alla natura, e ci accontentassimo dell’accordo di colori puri e forme autonome, creeremmo solo delle decorazioni geometriche, paragonabili, grosso modo, a una cravatta o a un tappeto».

James McNeill Whistler, Notturno in blu e argento, 1872-78, olio su tela, cm. 69 x 85, New Haven, Yale Center for British Art (Wikimedia).
Autocrazia

Diversi artisti moderni non fanno mistero di aspirare a un illimitato potere personale. L’estetica del “modernismo” – egocentrismo, violenza, ossessione per la purezza e negazione di qualunque altra via di accesso alla verità – è altamente autoritaria. L’ideologia riduttivista ipotizza un’ineluttabile processo evolutivo, in cui sopravvive colui che è (esteticamente) più adatto. Nei suoi scritti, Reinhardt fa culminare tutta l’arte del mondo nei propri dipinti “puri”. Ozenfant paragona il purismo a un “superstato”. Mendelsohn ritiene che i propugnatori della nuova arte abbiano “diritto a esercitare il controllo”.

Ad Reinhardt, There is just one painting, 1966:
«C’è solo una storia dell’arte, un’evoluzione dell’arte, un progresso dell’arte. C’è solo un’estetica, solo un’idea di arte, un significato di arte, solo un principio, una forza. In arte c’è solo una verità, una forma, un cambiamento, un mistero».

Amédée Ozenfant, Foundations of Modern Art, 1931:
«Il Purismo non è un’estetica, ma una sorta di super-estetica, allo stesso modo in cui la Lega delle Nazioni è un superstato».

Eric Mendelsohn, Il problema di una nuova architettura, 1919:
«La contemporaneità delle decisioni politiche rivoluzionarie e della trasformazione radicale delle relazioni umane nell’economia e nella scienza, nella religione e nell’arte, fornisce fin da principio una prova e una verifica della giustezza della fede in una nuova forma, testimonia della legittimità di una rinascita nel travaglio di catastrofi di portata storica».

Adolf Hitler, Per la inaugurazione della Prima Grande Esposizione dell’Arte Tedesca, 1937:
«Ma la Germania nazionalsocialista esige un’arte nuovamente tedesca, che dovrà essere, e sarà, al pari di tutti i valori creativi di un popolo, un’arte eterna».
«È mio radicato e immutabile intendimento sbarazzare d’ora in avanti sia il campo politico dal disordine che la vita artistica tedesca dalle frasi vuote».

Frank Lloyd Wright, Work Song, 1896:
«Penserò come agisco come sono
Nessun pensiero alla moda per imitazione
Né per fama mai raggiunta da uomo
Rinfodererò la nuda bianca lama
Il mio atto conviene ad un uomo
Il mio atto
L’atto che conviene ad un uomo».

Un fotogramma del film “La fonte meravigliosa” (“The Fountainhead”), 1949, regia di King Vidor, con Gary Cooper e Patricia Neal.

Abbiamo iniziato prendendo in esame un preciso atteggiamento – il pregiudizio contro la decorazione in arte – e ci siamo ritrovate in un labirinto di miti e mistificazioni. Isolando le citazioni dal contesto, non vogliamo affatto ridicolizzare gli artisti e i critici che ne sono autori. Quel che è certo è che continuare a leggerli con spirito acritico è solo un modo per perpetuarne gli errori. Il linguaggio con cui le loro affermazioni sono scritte è spesso datato – d’altronde, alcune risalgono a oltre cent’anni fa – ma i loro punti di vista fanno ancora da guida all’odierna teorizzazione sull’arte.

Il Modernismo, la teoria dell’Arte Moderna, proclamava di voler farla finita con l’umanesimo rinascimentale. Eppure, entrambe le dottrine glorificano il genio individuale quale depositario della creatività. Guarda caso, un simile genio eroico si è sempre manifestato nella forma di un maschio bianco occidentale. Non tocca a noi, come artiste, risolvere questi problemi, ma speriamo almeno di riuscire a far emergere quanto vi è di incongruo in assunti che, troppo spesso, sono stati accolti come “la verità”.

Ringraziamenti
– Siamo debitrici di Joseph Masheck, The Carpet Paradigm: Critical Prolegomena to a Theory of Flatness, in “Arts Magazine”, settembre 1976, per le citazioni concernenti tappeti e carta da parati.
– A Amy Goldin, le cui idee e il cui incoraggiamento hanno reso possibile questo saggio.

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In homepage: Immagine notturna del Padiglione "Esprit Nouveau" (Le Corbusier, Parigi 1925) nella ricostruzione del 1977, Bologna, quartiere fieristico (www.territorio.regione.emilia-romagna.it). Sotto: Růžena Zátková, Marinetti luce solare, 1921- 1922, olio su tela, cm. 106 × 95, Roma, Collezione privata (Wikimedia).


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