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La colonna a fungo

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La storia dell’architettura è attraversata da topiche e archetipi costruttivi che ne scandiscono lo sviluppo e ne rendono riconoscibili i vari contesti storici e culturali. In particolare la tradizione occidentale classica e rinascimentale ha saputo esprimere, tramite la teoria degli ordini architettonici e dei relativi ornamenti, un universo di topiche e archetipi ricorrenti e concatenati: dalle colonne ai capitelli, dalle modanature ai fregi, dalla forma-tempio alla forma-basilica. Ma anche le tradizioni non occidentali e, in misura molto minore, quella moderna e contemporanea, hanno elaborato topiche e archetipi capaci di sfidare il tempo, sebbene non sempre abbiano sentito il bisogno di darne una formalizzazione esplicita.

Agli antipodi rispetto a quanto prospettato fin qui – e cioè il primato del repertorio, del sentire comune, in una parola della cultura – vi è un atteggiamento velleitario e di maniera, tipicamente postmoderno, per il quale ci si dovrebbe limitare a parlare, anche per l’architettura, di una non meglio specificata “creatività” ed “originalità” individuale. Secondo questa vulgata, tra progettista e collettività vi è un fitto interscambio di suggestioni tra l’antropologico, lo psicologico e il sociologico: i pretesti e i sottotesti cui attingeranno poi gli studiosi per le loro riflessioni critiche. Si iscrive in questa concezione autocelebrativa la fama di molte archistar la cui “creatività” si esprime in trovatine vistose quanto ripetitive, di una povertà sconcertante, che hanno l’unico pregio di essere facilmente riconoscibili per qualunque fascia di pubblico, dal bambino in età prescolare all’ultraottuagenario.

Italo Rota & Partners, Bozzetto per il nuovo ingresso dei Civici Musei di Reggio Emilia.

Ne sono un esempio i cosiddetti “funghi” in acciaio specchiante proposti dall’architetto Italo Rota per il nuovo ingresso di Musei Civici di Reggio Emilia. Se a Reggio tutto è ancora sulla carta, in compenso Rota ha già collocato identici funghi d’acciaio nella navata dell’ex-Oratorio di Sant’Elena e Costantino a Palermo riconvertito in biblioteca (2007). Cosicché quella prospettata per i Musei di Reggio ha tutta l’aria di essere un’autocitazione a dir poco zelante e superflua. Come altre illustri firme con le proprie elaborazioni, anche Rota non esita a presentare la colonna a forma di fungo come una griffe personale, sintesi emblematica della propria concezione di una realtà storicamente connotata qual è il museo. Ma un rapido excursus ci dice che le cose non stanno affatto così.

Particolare di casa tradizionale della comunità Walser, Val d’Aosta.

Colonne a forma di fungo si possono già trovare in molte tradizioni popolari, laddove i materiali reperibili in natura ne rendono pressoché spontanea e invariante la tecnica costruttiva. In Val d’Aosta, ad esempio, la Comunità Montana Walser (comuni di Issime, Gaby, Gressoney-Saint-Jean e Gressoney-La-Trinité) si caratterizza per le case tradizionali la cui parte superiore si innalza a mo’ di palafitta su colonne a fungo, dove il fusto è di legno e il capitello è una pietra di forma schiacciata e tondeggiante.

Robert Maillart, Deposito granario, 1912, Altdorf (foto © Chriusha/Wikimedia Commons).

L’utilizzo in età moderna della colonna a fungo si deve all’ingegnere svizzero Robert Maillart (1872-1940) che la perfeziona per sfruttare le proprietà statiche e dinamiche del cemento armato e rinforzato, nell’epoca della sua piena affermazione come materiale principe nell’architettura civile ed industriale. Le colonne a fungo elaborate da Maillart a partire dai primi del ‘900 sono un vero e proprio archetipo nel loro genere, e il solaio a fungo a nervature ortogonali da lui brevettato nel 1908 conoscerà innumerevoli applicazioni e varianti.

Antoni Gaudì, Parco Güell, 1900-14, Barcellona (foto © Fred Romero/Flickr.com).

Pressoché simultaneamente e sempre col ricorso al calcestruzzo, incrostato però con le concrezioni tipiche del suo estroso stile modernista, il più anziano Antoni Gaudì, per non citare che un nome fra i più illustri, usa la colonna a fungo ripetutamente, soprattutto negli spazi coperti del Parco Güell di Barcellona (1900-14).

Alvar Aalto, Sede del quotidiano “Turun Sanomat”, locale della tipografia, 1927-29, Turku (foto © Gustaf Welin/Alvar Aalto Foundation) .

L’architettura europea ed americana del ‘900 ha fatto più volte ricorso alla colonna a fungo, nella versione disadorna ma elegante messa a punto da Maillart. Hanno alle spalle il modello Maillart, ad esempio, le colonne a fungo costruite da Alvar Aalto per la sede del quotidiano “Turun Sanomat” a Turku, Finlandia, nel 1927-29. E anche in quelle con capitello radiale di Pier Luigi Nervi (con l’architetto Gio Ponti) per il Palazzo del Lavoro di Torino (1961), si riconosce, benché trasfigurata in forme quasi gotiche, la stessa matrice.

Pier Luigi Nervi (con Gio Ponti), Palazzo del Lavoro, 1961, Torino.

Ma le colonne a fungo più celebri del secolo XX sono quelle progettate da Frank Lloyd Wright per il Johnson Wax Administration Building di Racine, USA (1936-39). Anch’esse sono evidentemente figlie della visione ingegneristica di Maillart, e questo serve almeno in parte a smontare una certa immagine prometeica, tutta genio e individualismo, che viene tuttora fatta circolare di Wright.

Dunque la colonna a fungo ha, per le sue caratteristiche tecniche, una funzione di sostegno ancora più specifica rispetto a quelle dotate di un capitello normale. Ecco perché essa si associa così bene alla topica architettonica della sala ipostila, così come la conosciamo sin dall’antichità: un ambiente chiuso dove il peso del solaio si distribuisce su file di colonne visivamente assimilabili ad alberi i cui rami formino una copertura compatta.

Gli oggetti in acciaio proposti da Rota per i Musei di Reggio sono una sorta di media statistica, resa ancora più anodina dalla lucentezza del metallo, di tutti i precedenti visti sin qui, con una maggiore attenzione alla lezione di Wright non foss’altro che per la celebrità e il prestigio del modello. In più, con la messa in opera, si attua la trovatina tipicamente novecentesca della “decontestualizzazione”. Ovvero, l’ormai irriconoscibile colonna a fungo viene trapiantata dall’ambito “colto” della sala ipostila a quello “popular” del luogo da riconvertire a nuovi usi, dalla vecchia funzione statica ad una nuova, inconsistente missione ludico-comunicativa.

In quale scenario i “funghi” di Rota dovrebbero inserirsi? Nel centro storico di Reggio, davanti all’antico convento di San Francesco, sede dei Musei, e a pochi metri dai due storici teatri della città, il «Valli» e l’«Ariosto». Ebbene, trasformare un “luogo” come questo in un “non-luogo” non troppo diverso dalle boutiques e dai resort firmati dall’architetto Rota in Europa, USA e Medio Oriente, significa anzitutto popolarlo di figure fantasmatiche, prive di un retroterra pertinente e credibile. Non potete andare a Dubai o a Las Vegas? Niente paura, Dubai e Las Vegas verranno a voi.

In alto: Antoni Gaudì, Parco Güell (sala ipostila), 1900-14, Barcellona. Sotto: Frank Lloyd Wright, Johnson Wax Industries Building, 1937-39, Racine.

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