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I motivi a righe nell’analisi di Michel Pastoureau

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Docente di Letteratura angloamericana all'Università La Sapienza di Roma, Elémire Zolla (1926-2002) è stato uno dei massimi esperti che la cultura italiana abbia espresso nel campo delle filosofie orientali, induismo e buddhismo in particolare, e delle tradizioni esoteriche in genere. A questi temi egli ha dedicato un'intensa attività di scrittore, giornalista, critico, contribuendo alla scoperta di autori pressoché ignorati in Italia, da Mircea Eliade a Pavel Florenskij. Sua è, fra le tante scritte nel corso degli anni, l'introduzione alla prima edizione italiana de Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, pubblicata da Rusconi nel 1971. Nella sua produzione saggistica spiccano titoli come I letterati e lo sciamano (1969), Archetipi (1988), Uscite dal mondo (1992), Le tre vie (1995). Uscito nel 1999, La filosofia perenne non è fra i suoi libri più importanti, ma è comunque una valida testimonianza del suo percorso intellettuale, tra amicizie, incontri e letture. Nel brano che presentiamo di seguito, Zolla dedica una riflessione al libro di Michel Pastoureau - medievista ed antropologo francese oggi molto noto anche in Italia - L'étoffe du diable. Une histoire des rayures et des tissus rayés. Pubblicato in Francia nel 1991, il libro è uscito in Italia nel 1993, per le edizioni Il Melangolo, col titolo La stoffa del diavolo. Una storia delle righe e dei tessuti rigati. La breve dissertazione di Zolla suona come un invito a leggere al più presto il saggio di Pastoureau. Vedi E. Zolla, La filosofia perenne, Milano, Mondadori, 1999, pp. 87-89. Le immagini che corredano il testo sono il frutto di una scelta redazionale.

La simbologia non si lascia catturare da apparati di definizioni, la può allestire soltanto un conoscitore di storia e di religioni. Michel Pastoureau, docente di simbologia alle Hautes Études, parte da un enigma del Levitico (19,19): «Non indosserai veste tessuta di due». Che significa? Riguarda il tessuto o la tinta? Vieta di portare abiti misti di lana e lino o impedisce l’accostamento di colori disparati? Pastoureau ritiene che giochi la maniera antica e poi medievale di considerare le immagini a partire dal loro sfondo per venire alla superficie: la rigatura rende impossibile stabilire quale sia il colore di fondo. Inganna, disarciona. Quando Luigi il santo si portò dalla Terrasanta nel 1254 dei monaci del Carmelo devoti alla Vergine e seguaci dei primi Padri del deserto, avvolti in mantelli bianconeri o biancobruni, la gente s’infuriò. Furono chiamati «sbarrati», che equivaleva a bastardi. E poco servì che favoleggiassero d’aver adottato la rigatura dal manto di Elia profeta (che se n’era spogliato per gettarlo a Eliseo durante l’ascensione in cielo e le vampe dalle quali era circondato avevano lasciato quella segnatura). Una decina di papi esortarono invano i Carmelitani a cambiar divisa, soltanto Bonifacio VIII ottenne che adottassero un manto bianco.

Jean Fouquet, Ritratto del buffone Gonella, 1447-50, olio su tavola, cm. 36 x 24, Vienna, Kunsthistorisches Museum.

Le righe nel Medioevo sono costantemente proscritte o attribuite a classi infami. In una chiesa di Bolzano le ragazze sono per essere costrette alla prostituzione e l’obolo di San Nicola misteriosamente le mette in salvo; portano vestiti rigati. Sono vestiti a righe buffoni, boia, zingari e lebbrosi. Il traditore e fellone rosso di pelo vestirà a rigoni.

San Giuseppe, durante il Medioevo, passa per grullo o ubriaco, porta brache a righe. Mentre il punteggiato è divino e il maculato viceversa satanico, la rigatura sarà la mediazione. Memling, Bosch, Bruegel collocano alel collega francese centro del quadro spesso un personaggio vestito a righe: lo sguardo ne è attratto e quindi se ne distoglie. È avviato a circolare per la composizione.

Paolo Uccello, San Giorgio e il drago, 1456 circa, olio su tela, cm. 57 x 73, Londra, National Gallery.

Le bestie tigrate sono le più pericolose, la zebra parve satanica. L’eroe cavalca un destriero bianco; il baio o pomellato è riservato al fellone.

Nel secolo XII s’avvia l’uso dei blasoni e degli stemmi, dove la rigatura non è evitata, ma la sua segnatura maledetta è assunta invece dalle sbarre oblique declinanti da destra a sinistra. In quell’epoca comincia anche a diffondersi l’uso di vestiti a righe per i domestici, successivamente nascerà la livrea e infine il panciotto tigrato del maggiordomo. Quando Francesco I ed Enrico VIII adottarono righe verticali, rimase condannata la rigatura orizzontale.

Tavola illustrante la “Histoire naturelle” di Georges-Louis Leclerc de Buffon, uscita in 36 volumi tra il 1749 e il 1789.

Il secolo XVIII vide il capovolgersi dell’antica avversione: la zebra apparve armoniosa a Buffon, le righe attraversarono le pareti rompendo con grottesche, ghirlandine, fioretti, cineserie. Veste come una parete neoclassica Robespierre; lo stato rivoluzionario adotta una bandiera a strisce in America, un tricolore a striscioni in Francia. Eppure rigo e punizione sono equivalenti, lo dimostrano la parola francese rayer  (non le parole tedesche equivalenti, come Pastoureau vorrebbe), la rigatura del costume carcerario o della maglia marinara.

Si sono spesso abbigliati a righe i bambinucci, come a dire che erano mascalzoncelli. L’imbarazzo dettò la moda del costume da bagno a righe orizzontali. Le canaglie fra le due guerre vollero segnarsi col gessato.

Rare in natura, le righe sono un distintivo, non a caso le tracciano aratri, pettini e rastrelli; come dice Pastoureau: «Troppe righe alla fine fanno impazzire».

In alto: Elémire Zolla. Sotto: Vincent Van Gogh, Ritratto di Trabuc, infermiere dell'ospedale di Saint-Paul, 1889, olio su tela, cm. 61 x 46, Solothurn, Kunstmuseum.

 

 

 

 

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