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L’equivoco tecnologico

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La forma di un manufatto deriva da un atto di poiesis, cioè dalla capacità dell’artista/artefice di creare nuove forme, cui segue un processo di techne, cioè l’abilità di portare a buon fine la cosa con i materiali e i mezzi a disposizione. Se sul piano teorico tale schema appare, nella sua bipartizione, chiaro e coerente, nella pratica emergono invece difficoltà e fraintendimenti, in quanto poiesis e techne non sono due entità separate, ma due momenti dello stesso processo di ideazione, strettamente intrecciati fra loro. In altre parole, la creazione della forma non può essere separata dai processi necessari a realizzarla, nonostante a volte possa sembrare il contrario.

Al pittore si richiede una pura manifestazione di poiesis, e questo ci consegna l’immagine romantica di un sognatore, immerso nel proprio mondo fantastico e perennemente impegnato a tracciare disegni e dipingere tele. Ciò che il mito romantico non dice, è che anche l’artista deve affrontare notevoli problemi di techne. Il disegno richiede infatti specifiche competenze, ed anche la pittura comporta tutta una serie di problemi tecnici. Problemi che, alla luce dei sempre nuovi materiali forniti dall’industria, possono apparire oggi meno ardui, ma restano comunque rilevanti e continuano a fare la differenza fra il dilettante ed il professionista.

La poiesis del pittore è sempre innervata in una techne artistica: l’una può evolvere solo risolvendo i problemi posti dall’altra e viceversa. La techne del pittore, tuttavia, è caratterizzata da una grande duttilità. Tutti i materiali e gli strumenti che la compongono sono pensati per essere quanto più leggeri ed elastici, per assecondare al meglio l’intuizione poetica dell’artista. In tal modo, essi suggeriscono ai non addetti ai lavori un’idea di inconsistenza e facilità d’uso, che non corrisponde al vero. Altra caratteristica del rapporto del pittore con la propria techne è l’azione diretta, che non prevede cioè filiere o cantieri, se non in casi del tutto eccezionali.

Caso opposto è quello dell’ingegnere edile, al quale si richiede la messa a punto di strutture pratiche ed efficienti. Date le dimensioni del manufatto, le complessità cantieristiche e, non ultime, le responsabilità legali, quella della techne diventa per lui una vera e propria ossessione, e tutta la sua energia verrà spesa in quella direzione. Il mito razionalista ci consegna l’immagine di una professionista dedito al calcolo, che ha come guida alla forma la pura funzionalità del manufatto: un ponte dovrà solo collegare due sponde, un capannone contenere cose. Ma la realtà è ben diversa, perché sia il ponte che il capannone, fermo restando l’adempimento della loro funzione, hanno comunque una forma finale, che va ad interferire con un contesto urbano o naturale e che, quindi, dev’essere vagliata attraverso un processo di poiesis. La contraddizione si è manifestata in tutta la sua drammaticità, a seguito delle vicende legate al ponte Morandi di Genova. È chiaro, in definitiva, che anche l’artista più espressionista deve comunque fare i conti con una stringente techne, così come l’ingegnere più ligio e professionale non può esimersi dall’affrontare rilevanti problemi di poiesis.

Galleria dei Lavori (poi Opificio delle pietre dure) su disegno di Giuseppe Zocchi, Allegoria dell’Architettura, 1754 circa, commesso di pietre dure con cornice in bronzo, cm. 61 x 80, collezione privata (www.ilgiornaledellarte.com).

Poiesis e techne sono quindi intrecciate, compresenti, indissolubilmente legate all’idea di forma che si vuole realizzare. Se l’equivoco artistico, che porta all’elusione della techne, ci interessa marginalmente, in quanto riguarda perlopiù opere singole destinate a privati, l’equivoco tecnologico, che porta all’elusione della poiesis, ha invece rilevanti conseguenze, perché investe manufatti destinati ad un utilizzo pubblico o civile, la cui forma determina il decoro o il degrado visivo di una città, incidendo sulla qualità della vita percepita dai suoi abitanti.

L’elusione della poiesis da parte degli odierni progettisti (non solo ingegneri ma architetti, designer eccetera) avviene attraverso un processo mentale quasi inconscio, alla cui radice vi è la complessità tecnologica contemporanea. Si è detto che l’artista pittore può contare su materiali e strumenti duttili e su un approccio diretto alla techne. Il quadro, cioè, lo dipinge lui stesso, sollecitando i materiali fino a che non raggiungono l’obiettivo posto dalla sua poiesis. All’artista progettista questa possibilità è negata: il modo in cui l’industria opera non è suscettibile di cambiamenti. L’insieme di queste rigidità, messe in fila nel lungo iter cantieristico, porta a pensare che così si sia fatto, perché non si poteva fare altrimenti. Se poiesis e techne vengono concepite come aree distinte, questo alibi, dichiarato spesso dai progettisti per giustificare forme banali o dozzinali, sembra reggere, ma se – come stiamo sostenendo – esse sono intrecciate e compresenti in ogni fase dell’ideazione, ecco allora che questa giustificazione viene a cadere.

Se – poniamo il caso – il sistema industriale a cui si fa riferimento produce solo ciò che viene percepito come diritto, non sarà certamente grazie ad esso che si potrà progettare e realizzare il curvo. E tuttavia, nell’ambito del diritto, ci sono pur sempre molteplici possibilità compositive: a spina di pesce, a quadri, a L, eccetera, e tutte queste possibilità competono alla poiesis. In ogni momento del processo ideativo, quindi, alla forma diritta, condizionata dalla techne, corrisponderà sempre e comunque una possibilità di scelta, di esclusiva responsabilità della poiesis: a spina di pesce appunto, oppure a quadri, eccetera. L’ossessione tecnologica sembra aver portato all’atrofia di questa seconda opzione nei progettisti, i quali appaiono sempre più succubi e deresponsabilizzati rispetto alle forme condizionate dalla techne. Questa, a sua volta, diventa sempre più seducente grazie alle (cosiddette) nuove tecnologie informatiche, fatte spesso oggetto di attesa messianica, a suggerire l’illusione che le forme disegnate siano effettivamente frutto di poiesis dell’operatore, e non dei condizionamenti interni dati dai limiti del programma di lavoro.

Ad uno sguardo d’insieme, le forme del contemporaneo sembrano affette da sindrome bipolare: o sono tristemente banali e dozzinali, oppure totalmente astruse. È come se il problema ricordato sopra – il sistema industriale che produce solo diritto – venisse alternativamente interpretato, o come un diktat da assecondare supinamente, oppure come un complotto da sventare ad ogni costo. In architettura si passa dal cubo, apoteosi del prefabbricato e dello standard, alla fenomenologia archistar, che fa sì che nella struttura di un edificio non vi sia, letteralmente, un pezzo uguale all’altro. Mentre nell’arredamento, la miseria chic dello stile Ikea si contrappone all’iper-barocco del cosiddetto stile Luxury. Sembra scomparsa quell’ampia fascia intermedia di forme, fatta di equilibrio fra costo, decoro ed estetica, che negli ultimi decenni del ‘900 aveva qualificato il cosiddetto Made in Italy. Crediamo sia giunto il momento che ogni progettista si riappropri delle proprie responsabilità rispetto alla poiesis, e se le assuma durante tutto l’iter della progettazione, nel quotidiano confronto con le tecnologie contemporanee.

In alto: stampante 3D al lavoro (www.shutterstock.com). Sotto: copertura del Teatro Goldoni di Livorno, costruito nel 1847 su progetto di Giuseppe Cappellini, dopo il restauro ultimato nel 2004 (Wikimedia Commons).

 

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