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Sulle macerie del ponte Morandi

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Crediamo che il crollo del ponte Morandi, avvenuto a Genova il 14 agosto scorso, travalichi l’ambito strettamente processuale su cui le autorità stanno indagando. Fino a pochissimo tempo fa, infatti, si parlava di quel viadotto come di un vero e proprio capolavoro artistico, frutto di una fase storica in cui anche gli ingegneri poterono recitare, principalmente grazie al cemento armato, un ruolo di primo piano nel campo dell’architettura. In altre parole, il disastro di Genova chiama in causa (come altri che lo hanno preceduto nel tempo) responsabilità non solo di ordine amministrativo, tecnico e giuridico, ma anche di ordine culturale. Ed è su queste ultime che vogliamo qui soffermarci, prendendo spunto da due evidenze apparentemente inconciliabili l’una con l’altra.

Prima evidenza: come è emerso all’indomani del disastro, tutta la vita del viadotto, inaugurato nel 1967, è stata costellata da seri problemi di manutenzione. Per una infrastruttura strategica della rete viaria italiana, la cui aspettativa di vita doveva misurarsi sul secolo, si può ben dire che, progettualmente parlando, l’azzardo sia stato eccessivo. Seconda evidenza, altrettanto solare: l’intera produzione dell’ingegner Riccardo Morandi tendeva (per certi versi riuscendovi) ad emanciparsi dalla mera funzionalità, rivendicando una precisa dignità artistico-estetica, ed è proprio in questa chiave che, fino a ieri, critici e addetti ai lavori l’hanno recepita, commentata e celebrata. A questo punto viene da chiedersi: non sarà che, nelle sue legittime ambizioni artistiche, anche Morandi avesse contratto le due malattie croniche del modernismo in architettura? Quelle due malattie che, con un pizzico di umorismo, si potrebbero rispettivamente definire narcosi da nuovi materiali e sindrome avanguardista.

Ogni epoca fa di necessità virtù, ed affina le proprie abilità costruttive impiegando i materiali di cui dispone. Quando dominavano legno, pietra e cotto, i tempi e i modi del degrado erano ben noti, sicché i progettisti prima, i proprietari e i gestori poi, erano in grado di prendere, in base all’importanza dell’opera, le opportune contromisure. L’avvento della modernità scompigliò le carte, introducendo materiali di nuova generazione che, con le loro caratteristiche di economicità e duttilità, sedussero i protagonisti di questa fase storica. Dall’innamoramento alla dipendenza patologica il passo fu molto breve, in quanto i nuovi materiali calamitavano ogni sforzo progettuale: la trave in pietra o in legno, insomma, non poteva che soccombere alla putrella in ghisa. Ma a differenza di quelli tradizionali, il degrado dei materiali prodotti industrialmente risulta molto difficile da prevedere e da affrontare. In tal senso, la modernità abbonda di tragiche sorprese. Dai primi ponti ferroviari in ferro crollati per effetto dell’ossidazione già sul finire del secolo XVIII, fino alla vicenda nostrana legata alla produzione dell’Eternit, prodotto edile poi rivelatosi cancerogeno, l’elenco dei bruschi risvegli dal sogno del materiale nuovo, risolutivo e indistruttibile, è molto lungo.

Il cemento armato appartiene a pieno titolo a questo elenco. Si tratta di un composto economico, duttile, affascinante per l’ingegneria impegnata nella ricostruzione degli anni postbellici, ma con un ciclo di vita che non si spinge oltre qualche decennio. Il che, per le opere ingegneristiche, è poco più di un battito di ciglia. Nell’euforia del boom economico, cinquant’anni potevano forse sembrare un’eternità, ma oggi, in tutto il mondo, il cemento armato sta presentando il conto del suo fisiologico degrado. Tuttavia, manutenzioni e rifacimenti di manufatti stradali potrebbero rientrare pur sempre nell’ordine delle cose, se non fosse che, nel caso di Genova, alla narcosi da nuovi materiali si è sommata anche la seconda patologia, cioè la sindrome avanguardista.

È nella natura umana cercare di superare i limiti, e non vi è nulla di sbagliato nell’ambizione di un ingegnere di puntare a forme ardite e innovative, potendo disporre dei più aggiornati materiali e tecnologie, e facendo assegnamento su una forte componente creativa (poiesis). La patologia subentra quando sull’altare della creazione individuale viene immolato il senso della più elementare prudenza, in contesti civili e in nodi strategici in cui le conseguenze di ogni eventuale errore ricadono sulla collettività.

Non è dunque all’operato dell’ingegnere Rodolfo Morandi che la nostra critica si rivolge (né ne avremmo le competenze), ma alle dinamiche patogene della cultura in cui esso si radica. Quella cultura moderna che, ossessionata dai propri mitologemi – progresso, avanguardia, “nuovo” fine a se stesso – ha ignorato il buon senso, facendo della principale virtù della cultura tradizionale, la prudenza, un vizio da cui fuggire. Più di un commentatore ha scorto un’analogia tra la tragedia genovese e quella del Vajont (1963) e, pur con tutte le cautele del caso, riteniamo che proprio qui stia il filo rosso che lega le due maggiori catastrofi ingegneristiche italiane.

Fondamento etico del decoro è, in tutta la tradizione classica, la virtù della prudenza. Dalla prudenza discende infatti la capacità di valutare ciò che è opportuno o inopportuno, l’adeguatezza delle azioni e delle opere alle circostanze date, la misura dei costi e dei benefici economici, sociali ed estetici da mettere in conto. Il Moderno, inteso come clima culturale improntato a specifici assiomi filosofici, è una fase storica ormai chiusa da tempo, ma evidentemente le sue malattie gli sono sopravvissute e continuano ad aggredire il nostro presente. Il disastroso incendio (14 giugno 2017) della Torre Grenfell di Londra, i cui materiali di rivestimento si presumevano non infiammabili, o l’incidente mortale occorso il 10 agosto scorso ad un quattordicenne di Castel d’Ario (MN), per il crollo di una panchina-installazione girevole, in cui la sicurezza ingegneristica è stata pesantemente sacrificata ad una confusa creatività, dimostrano come il culto di sé e/o dei materiali di cui ci si serve, siano patologie sempre in agguato.

Se una morale va tratta dalla tragica vicenda genovese, crediamo sia proprio questa: l’elogio (sconsiderato) della follia ha fatto il suo tempo; l’elogio della prudenza deve tornare ad essere il motivo ispiratore di qualunque opera pubblica, sia sul piano funzionale che su quello estetico.

In alto: un'immagine satellitare del crollo del ponte Morandi a Genova (www.quotidiano.net).

 

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