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Industrial design. Cultura e caratteri di un’arte globale [1/7. Presenza del design]

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di Enrico Maria Davoli

Il saggio in sette capitoli che pubblichiamo a partire da oggi non è un manuale di storia del design. Ma non è nemmeno una sintesi di comodo. Vuole invece essere un percorso intorno alla nozione generale di design e a quella, più specifica, di industrial design. 
• Il primo capitolo prende le mosse dalla onnipresenza del design nel panorama attuale. Come avviene in tutte le attività umane legate a un
quid creativo, non vi è una precisa linea di demarcazione fra oggetti d'autore, una ristretta percentuale, e oggetti anonimi. Che poi questi ultimi siano davvero anonimi o siano semplicemente il riflesso di ciò che avviene in buona parte dei comparti produttivi, dove il lavoro non dà diritto ad alcuna visibilità pubblica per chi lo esegue, non è qui essenziale. Purché sia chiaro che design è prima di tutto industria artistica, creazione collettiva.
Il secondo capitolo analizza le due parole che compongono la nozione di disegno industriale o
industrial design, evidenziando lo scarto esistente tra lingua inglese e lingua italiana e le ragioni per le quali l'espressione anglofona ha preso ovunque il sopravvento. Ma dietro le due parole "disegno" e "industria" c'è, oltre all'etimo, una vicenda storica e sociale essa pure molto antica. I due termini si saldano e convivono nella fattispecie dell'industrial design, ma hanno per lunghissimo tempo condotto vite separate. La loro saldatura risale a non più di cento anni fa.
• Il terzo capitolo si interroga sul perché, nelle società premoderne, non sia mai esistito il progetto nella veste tecnica, scientifica e comunicativa oggi consueta. Per rispondere alla domanda, occorre addentrarsi nell'organizzazione di quelle società, nei loro sistemi produttivi e nelle scale di valori che disciplinavano le varie prestazioni lavorative, incluse quelle che oggi definiamo artistiche. Il confronto con la modernità industriale e postindustriale dice molto dei profondi cambiamenti intervenuti.
• Il quarto capitolo ripercorre un tempo lunghissimo, ormai concluso: quello in cui le più elementari nozioni di design vivevano nei gesti degli artigiani, impegnati nello sforzo collettivo di trovare le forme ottimali di poche (rispetto a oggi) cose, realizzate attraverso processi fisico-chimici (raffrontati a quelli odierni) elementari. I repertori della decorazione, applicati a questa o a quella classe di oggetti con un rigore che oggi potrebbe apparire fuori luogo, sono il corrispettivo di quelli, molto più fluttuanti ed elastici, del design odierno.
• Il quinto capitolo indaga una dinamica fondamentale per comprendere le origini della modernità, e quindi anche dell'
industrial design: la nascita della stampa a caratteri mobili. La nuova tecnologia mette in movimento intuizioni ed energie fino a quel momento inimmaginabili, stimolando la diffusione delle idee e la loro verifica, validazione, trasformabilità in azioni e in cose.
• Il sesto capitolo rievoca le tappe fondamentali di quella rivoluzione industriale, che ha posto le premesse storiche e culturali per l'esistenza del design come professione. Inoltre, traccia un parallelo tra il design e altri settori disciplinari e produttivi, legati anch'essi a doppio filo all'industria moderna, che del design condividono la dimensione progettuale.
• Il settimo capitolo tenta di tracciare un profilo del designer quale attore di una società in cui la spirale dei consumi è in costante ascesa, e dove il suo contributo è determinante per la fisionomia finale delle cose che il pubblico acquista e utilizza. È un profilo sommario, tratteggiato attraverso poche situazioni-tipo e facendo nomi a puro titolo esemplificativo. Non in un ordine astratto di grandezza, quindi, ma in una logica di rappresentatività rispetto alle questioni generali che il testo affronta.
• La bibliografia, suddivisa per capitoli, si compone di testi che hanno rivestito effettiva importanza per la stesura del saggio, al di là della loro attinenza, non sempre strettissima, alle questioni del design.
1.1. Il design è ovunque

Quando consultiamo i volantini pubblicitari recapitati nelle nostre cassette della posta, sappiamo che buona parte degli articoli che vi sono raffigurati (elettrodomestici, cellulari, pc, attrezzature per lo sport e il fai-da-te…), per quanto formalmente elementari e stereotipati, ricade nel dominio del design. Quando ci rechiamo in una mostra-magazzino di mobili economici (la multinazionale Ikea ne è forse l’esempio più noto), sappiamo che molti di quegli oggetti replicano, sia pure in modo semplificato, stilemi canonici del design novecentesco. Anche l’auto su cui viaggiamo è un potenziale pezzo di storia del design, perché la sua obsolescenza estetica ce la farà apparire, nel giro di pochi anni, già storicizzata, pronta a entrare in un’ideale galleria del car design. Il design è ovunque, negli oggetti e nelle immagini della nostra vita quotidiana. Dalle stoviglie ai mezzi di trasporto, dagli elettrodomestici alle confezioni dei generi alimentari, dall’insegna della metropolitana ai marchi aziendali, dall’hardware al software di una delle tante strumentazioni tecnologiche di cui ci serviamo, le cose che ci circondano si legano alle procedure del design.

Parlando di design, non si parla solo di oggetti d’uso, nel qual caso si ha il product design. Vi sono anche architettura d’interni e arredamento (interior design, furniture design), comunicazione, editoria e pubblicità (graphic design, visual design), tipografia (type design), abbigliamento (fashion design), illuminotecnica (light design), imballaggi (packaging design), internet (web design), allestimenti espositivi (exhibition design) e perfino gastronomia (food design). E molto altro ancora, mano mano che ci si addentra in problematiche in piena evoluzione (interaction design, retail design, service design), e con l’insorgere di nuovi approcci e filosofie (universal design, design for all).

Volantino Trony elettrodomestici cucina, agosto-settembre 2023.

Quando si vuole introdurre la nozione di design, rimarcandone l’incidenza nel panorama odierno, sembra ovvio iniziare con un giro d’orizzonte simile a quello visto fin qui. Eppure, sottolineare ciò che è sotto gli occhi di tutti non solo non basta, ma può addirittura essere controproducente. A ormai tre secoli dagli inizi della moderna civiltà industriale, è evidente che gli oggetti che riempiono la nostra esistenza presuppongono una elaborazione accurata, scandita in fasi articolate e interdipendenti: dal progetto alla produzione in serie, dallo stoccaggio all’immissione sul mercato, dalla vendita al consumo, dallo smaltimento al riciclaggio. Il design, appunto. E tuttavia, la parola design risulta sempre più sfocata e generica. Le etichette si moltiplicano, mentre la cosa a cui si riferiscono si inflaziona e cambia aspetto, come in un gioco di specchi.

Fino a mezzo secolo fa, buona parte dei designer veniva da una formazione pittorica, grafica e architettonica, e da lì traeva la propria legittimazione professionale. Oggi, invece, il designer è figura ibrida, all’incrocio di competenze disciplinari molteplici e parcellizzate. E tocca proprio a lui occupare molti dei campi che, precedentemente, erano stati monopolizzati dagli esponenti delle belle arti e (con una distinzione molto discutibile) delle arti applicate.

Da un lato, quindi, la parola design indica un’attività complessa, ramificata all’interno delle diverse filiere produttive. Dall’altro, la sua collocazione a cavallo fra arte, tecnologia, economia, psicologia, sociologia appare sempre più indecifrabile; le sue prerogative artistiche, estetiche, etiche, sempre più nebulose. Dietro un complesso di competenze volte a progettare un manufatto, un ambiente, un servizio, materiale o immateriale che sia, qual è il filo conduttore, l’elemento unificante? Dove affondano le radici di un’attività che è ovunque e da nessuna parte?

1.2. Anonimato e autorialità

Gli stessi stereotipi linguistici ormai entrati nell’uso quotidiano, ci dicono qualcosa di importante sul tema. Succede, per esempio, che definiamo “di design” un oggetto (sedia, lampada, tavolo) contrassegnato da una firma o da un marchio aziendale celebre. Ma come si diceva all’inizio, sappiamo bene che, in realtà, tutti gli oggetti fabbricati in serie sono “di design”. Lo sono secondo una scala di gradazioni che va da un design meramente utilitaristico, affidato a uffici tecnici i cui progettisti sono pressoché ignoti, fino a un design acclamato, di fama internazionale, i cui nomi più altisonanti sono delle vere e proprie star. Le loro creazioni sono il fiore all’occhiello delle aziende più prestigiose, e appaiono nei negozi di antiquariato e modernariato, nelle mostre, nei musei, nelle aste.

Come accade nella storia di ogni disciplina, dalla pittura al teatro alla musica, è esistito e sempre esisterà un design anonimo, spersonalizzato. Un design di cui non si conosce l’autore o del cui autore, sebbene sia noto, non ci si cura. È, per esempio, il design di molti oggetti nati nella seconda metà del secolo XIX e ancor oggi essenziali nella nostra vita quotidiana: dalla sedia a sdraio, alla molletta da bucato, alla graffetta per unire più fogli di carta, alla puntina da disegno.

Oggetti anonimi (photo credits Triennale Milano).

Avventurandosi nel paradosso, si possono addirittura individuare casi-limite di design spontaneo, al di fuori di ogni strategia di mercato, come quello che è all’origine di molti manufatti ideati da non professionisti, che, in realtà economicamente povere, costruiscono oggetti altrimenti irreperibili, per l’autoconsumo o per alimentare magri commerci. Qualcosa di simile (cioè uno pseudo-design che imita, in modo empirico, oggetti di produzione industriale) si ha ovunque le condizioni politiche, economiche e sociali rendano conveniente, a fronte della scarsità e dell’alto costo delle merci, la loro surrogazione con oggetti autoprodotti.

Per ora non andiamo oltre su questa strada, perché ci porterebbe ad affermare subito, in modo fin troppo semplicistico, che un’attività definibile come design è sempre esistita e sempre esisterà. Sappiamo bene, infatti, che, fin dalla notte dei tempi, l’uomo si distingue da tutti gli altri animali per essere il solo in grado di elaborare, perfezionandoli continuamente, oggetti e strumenti finalizzati a rendere più agevole il suo approccio con l’ambiente circostante, sfruttandone le risorse, neutralizzandone le insidie, elaborando nuove strategie di sopravvivenza. Si può comunque affermare che la dimensione progettuale sottesa al design è sempre presente, in modo implicito o esplicito, in ognuno dei passi compiuti dalla specie umana.

1.3. Industrial design

Occorre innanzitutto capire in quale contesto storico il campo disciplinare chiamato design si palesi: in particolare durante il XIX e il XX secolo, quando la rivoluzione industriale prende il comando dell’economia planetaria. Non meno importante, anche se quasi mai ci si pone il problema, è precisare quale relazione vi sia tra il design e gli altri linguaggi (visivi, audio, multimediali) saliti anch’essi alla ribalta nello stesso periodo di tempo. Linguaggi che, proprio come il design, fin dalle loro prime manifestazioni appartengono in toto alla fenomenologia della rivoluzione industriale ormai matura, avviata a conquistare il mondo.

Industriale: è proprio questa la parola di cui non possiamo fare a meno, per parlare di design come attività che presiede alla moderna produzione di beni di consumo. Dunque, non semplicemente design ma, semmai, industrial design, come si usava dire a metà novecento, all’epoca in cui uscivano i primi studi di carattere storico, estetico e tecnico sull’argomento. Ma prima ancora di vedere come l’industrial design sia assurto a protagonista della cultura moderna, segnandone tutta la parabola storica, vi sono almeno due questioni che occorre affrontare.

John Absolon, William Telbin (per Vincent Brooks, Day & Son Litographers), Veduta interna del Crystal Palace di Londra durante la Great Exhibition, 1851, litografia colorata a mano dalla serie “Recollections of the Great Exhibition”, Lloyd Brothers & Co., Londra 1851, cm. 38 x 54,4, New York, Metropolitan Museum (Wikimedia).

La prima questione è di carattere lessicale, e verrà affrontata nel prossimo capitolo. Perché si usano così spesso vocaboli inglesi, per dire ciò che si potrebbe dire nella propria lingua madre, e con parole quasi identiche? In realtà, solo apparentemente identiche. L’italiana disegno industriale, la francese dessin industriel, la tedesca industriedesign, la spagnola diseño industrial – e molte altre che si potrebbero citare – sono espressioni omologhe all’inglese industrial design. Addirittura, l’espressione russa promyšlennyj dizajn (промышленный дизайн) è, nella seconda delle due parole, un vero e proprio calco dall’inglese. Evidentemente, le classiche parole russe per dire disegno, risunok, čertež (рисунок, чертеж) erano inadeguate. Insomma, le lingue diverse dall’inglese hanno assimilato l’espressione anglofona, preferendola a quella autoctona e, con ciò stesso, ammettendone il primato. Nel prossimo capitolo cercheremo di fare chiarezza su questi aspetti, riconoscendo i diritti di precedenza, nei limiti in cui è possibile ravvisarli.

La seconda questione è di carattere storico-cronologico, e verrà analizzata nei capitoli III, IV e V. Posto che la vicenda dell’industrial design coincide con il ciclo della rivoluzione industriale (anche sul piano teorico e filosofico, le consapevolezze fondamentali per lo sviluppo di una moderna cultura del progetto, maturano solo dall’illuminismo settecentesco in poi), vi è comunque tutta una serie di premesse, già reperibili nelle età precedenti, di cui non si può non tenere conto. Che collocazione storica dare a questo patrimonio di intuizioni, di pratiche di bottega, di soluzioni empiriche in bilico tra arte e scienza, disseminate lungo l’intero arco della civiltà umana? Quale rapporto vi è, nelle vicende del design, tra la dimensione tradizionale del sapere, in cui l’umano e il divino sono strettamente interconnessi, e il pragmatismo tecnico-scientifico che ne ha preso il posto negli ultimi secoli?

BIBLIOGRAFIA

• Terminologia del design: A. Bassi, Design, Il Mulino, Bologna 2013.

• Prospettive disciplinari del design: AA.VV., XXI secolo. Gli spazi e le arti, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2010, e in particolare: A. Citterio, Industrial design (pp. 415-420); V. Pasca, Il design nel futuro (pp. 421-431); M. Vitta, Nuovi modelli dell'abitare (pp. 433-441); R. De Fusco, Design per tutti (pp. 443-452); A. Bassi, Il design dell'artefatto tecnologico (pp. 453-461); C. Chiappini, P. Rigamonti, Interaction design (pp. 463-472); A. Dominioni, Aerospace design (pp. 473-481); N. Crea, L'innovazione dell'automobile (pp. 483-492); A Vallicelli, Yacht design (pp. 493-501); F. Zurlo, Design strategico (pp. 503-511); P. Tamborrini, G. Tartaro, Design sostenibile (pp. 513-522); A. Branzi, Interni (pp. 523-531); B. Finessi, I. Lupi, Allestire oggi (pp. 533-541); C. Martino, La comunicazione del design (pp. 543-550); G. Lussu, Design della comunicazione (pp. 551-560); S. Polano, Neografia (pp. 561-564); S. Monaco, Grafica editoriale (pp. 565-577); D. Russo, Grafica multimodale (pp. 579-587); G. Anceschi, D. Fornari, Web design (pp. 589-597).

• Design anonimo: F. Clivio, H. Hansen, P. Mendell, Hidden Forms. Vedere e capire le cose, Skira, Milano 2014.

• Una collezione di oggetti di produzione domestica: V. Archipov, Design del popolo. 220 invenzioni della Russia post-sovietica, Isbn edizioni, Milano 2007.

• Meccanismi ideativi nel design e suo radicamento nella tradizione artigianale: V. Sacchetti, Il design in tasca, Editrice Compositori, Bologna 2010.

• Due testi storici sul disegno industriale: H. Read, Arte e industria. Fondamenti del disegno industriale, Lerici, Roma 1962; G. Dorfles, Introduzione al disegno industriale. Linguaggio e storia della produzione di serie, Cappelli, Bologna 1963.

Homepage: Poul Henningsen, Lampada a doppia spirale per il cinema-sala da concerti Scala di Aarhus, 1955, alluminio, alluminio smaltato, rame, cm. 89 x 196 x 27, collezione privata (Kamil Antosiewicz-Monika Powalisz/Wikimedia).
Sotto: Società Anonima Bergomi, Distributore SAB 51, 1951, Tradate, Museo Fisogni (Wikimedia).

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