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Orpello e ornato

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Ogni manufatto nasce da una funzione originaria, cioè la necessità primaria per cui viene prodotto, ha una funzione propria, cioè riceve una data forma per uno specifico utilizzo, e assume poi una funzione civile, cioè un aspetto conveniente per essere accettato dal gruppo sociale cui è destinato. Fatta eccezione per pochi utensili espressamente costruiti attorno alla loro funzione propria, la funzione principale a cui ogni manufatto è chiamato a rispondere è la terza, cioè quella civile. Latitando quest’ultima, l’oggetto, anche se utile, verrà tendenzialmente rifiutato dai fruitori finali. I parametri per cui un oggetto è giudicato “bello” o “brutto”, e quindi accolto o respinto, non ineriscono perciò all’oggetto stesso, ma alle categorie di giudizio della comunità cui esso è destinato. Nel suo Introduzione al disegno industriale, Gillo Dorfles dedica alcune riflessioni alla carcassa copriingranaggi di un utensile o di un macchinario, comunemente chiamata carter 〈1〉. Questo esempio si presta bene anche al nostro ragionamento, e se ci riferiamo a Dorfles è proprio perché egli fu apprezzato cantore della poetica del funzionalismo e maestro della scolastica che ne derivò.

Ora, posto che la funzione originaria di un carter  stia nel «proteggere i meccanismi», e la funzione propria, come scrive Dorfles, nel «proteggere un riduttore di velocità a doppio salto d’ingranaggi cilindro-elicoidali» 〈2〉, la sua funzione civile si risolve nel fatto che se il suo aspetto esteriore non è consono, il macchinario rimane invenduto in magazzino. Insomma, l’esempio del carter  dimostra esattamente il contrario di quanto voleva leggervi Dorfles. Sulle coperture degli organi interni si concentra infatti tutta la funzione civile degli oggetti meccanici, ed è per questo che esse vengono sagomate, colorate e rifinite indipendentemente dalla funzione propria degli oggetti stessi: proprio per rispondere alle aspettative di decoro dei luoghi e delle persone cui essi sono destinati. Il “sobrio” grigio-antracite degli anni ’50, il “funzionale” verde bottiglia degli anni ’60, il “moderno” arancione degli anni ’70 – per limitarsi alle cromie – sono attributi legati all’idea di decoro e non alla funzionalità dell’oggetto, che potrebbe benissimo essere utilizzato mostrando ancora i segni della mola e delle saldature. L’idea di decoro è quindi il fine di un manufatto nella sua funzione principale, quella civile, mentre le invenzioni estetiche ispirate alle tendenze stilistiche in atto ne costituiscono i mezzi.

Marcello Nizzoli, Macchina per scrivere Olivetti Lexicon 80, 1949.

Confondere i mezzi estetici con il vero fine, che è di natura etica: è stato questo l’abbaglio che, nella tarda modernità funzionalista, ha determinato un approccio “autistico” all’ideazione dei manufatti architettonici e di design. La funzione civile è stata completamente disattesa, ascrivendone gli effetti a mistificanti fluttuazioni sociologiche 〈3〉. È a questa nebulosa concezione, in cui l’oggetto viene arbitrariamente separato dalla sua cristallina essenza strutturale, che si deve anche l’introduzione del termine “orpello”. Va detto subito che tale termine, completamente estraneo alla tradizione e alla terminologia specifiche della decorazione, è stato introdotto nel lessico modernista con finalità essenzialmente denigratorie. Il suo significato etimologico è infatti “pelle d’oro” o “foglia d’oro”, e si riferisce in particolare all’azione della doratura effettuata con una lega a base di rame, quindi fasulla. Accade insomma che la parola “orpello” venga presentata, denigratoriamente e col preciso intento di sottolinearne la separatezza rispetto alla struttura dell’oggetto, come sinonimo di “ornato” (termine che è invece strutturale alla decorazione). Ma anche la denigrazione può servire a mettere in luce aspetti cruciali, meritevoli di attenzione. Vediamoli meglio.

Tutta la terminologia della decorazione deriva dalla retorica classica, arte liberale per eccellenza, fraintesa e vilipesa dalla modernità, coi risultati che sono sotto i nostri occhi (per i retori latini, chi non sapeva parlare era incapace anche di pensare). In retorica, per decor s’intende la qualità di un’orazione “adeguata alle circostanze”, cioè con un’esposizione consona al livello degli interlocutori: letteralmente, il discorso cambia se di fronte si ha una riunione di contadini piuttosto che un’assemblea di senatori. In generale, l’eloquio deve possedere determinate virtù: la chiarezza (perspicuitas), la purezza del linguaggio ritenuto canonico dal gruppo a cui è rivolta (puritas), la ricchezza argomentativa (ornatus); e soprattutto dev’essere efficace (aptum), cioè in grado di conseguire gli obiettivi che ci si propone. L’orazione, infatti, si esplica o in contesti deliberativi (politici e giudiziari), e quindi deve portare gli interlocutori a condividere la tesi dell’oratore, oppure in ambiti celebrativi (epidittici, cioè dimostrativi) nei quali il fine è quello di esaltare gli animi e spingerli all’azione ritenuta più giusta.

In questa sede ci interessa in particolare l’ornatus. Esso è, nella retorica classica, l’omologo di quello che, in decorazione, è la “materia prima” con cui operare: l’ornato appunto. Ornatus  deriva dal verbo latino ornare, ed interessa due aree semantiche distinte: quella estetica di “abbellire”, “adornare”, e quella bellica di “equipaggiare”, “attrezzarsi per lo scontro” 〈4〉. Se la prima delle due è largamente familiare ai lettori, per contro la seconda esige qualche precisazione. L’oratore organizza il proprio eloquio in un “tema” i cui contenuti – spesso indigesti o addirittura dolorosi per gli ascoltatori – non possono essere nominati così come sono, in tutta la loro brutalità e senza giri di parole, pena la ripulsa da parte del pubblico. Abbellire ed arricchire l’eloquio è esigenza primaria dell’oratore, giacché la forma e lo stile, genericamente intesi, sono le prime qualità che gli interlocutori colgono ed apprezzano. In un contesto politico-giudiziario, gli elementi di abbellimento hanno anche e soprattutto funzione di difesa del tema: sono cioè, per così dire, “attrezzatura necessaria a sostenere lo scontro”, proprio come lancia, scudo e corazza in un combattimento reale. Comune alle due aree semantiche è il fatto che l’ornatus è dato da elementi precostituiti, indipendenti dal contenuto del discorso, elementi che l’oratore acquisisce, per così dire, “a catalogo”. Egli si avvale cioè di figure retoriche e luoghi comuni preesistenti, appartenenti ad un repertorio, utilizzabili caso per caso, scegliendoli e adattandoli al tema dato. Virtù dell’oratore è dissimulare tutto ciò rendendo la propria orazione fluida, apparentemente naturale e spontanea. Le simmetrie e le trasposizioni che rendono l’ornatus  assimilabile all’ornatistica per la decorazione sono ora più chiare, e possiamo quindi avviarci alle conclusioni.

Guido Andlovitz, progetto decorativo del vaso “Monza 91”, dal Catalogo Paglia (1916-32) della Scocietà Ceramica Italiana, Laveno Mombello, Museo Intrnazionale del Design Ceramico.

In primo luogo, come abbiamo visto, il repertorio ornatistico è qualcosa che si dà a priori, in quanto pertiene agli archetipi condivisi dagli interlocutori e non ai contenuti interni del tema. Ovvero, esso rinvia al linguaggio figurato che è patrimonio della comunità (ed è qui che prende corpo la funzione civile), e non alla struttura interna del singolo manufatto (su cui invece insiste la funzione propria). Il manufatto può essere accolto dalla comunità a cui è destinato, e quindi ritenuto decoroso, solo se si esprime attraverso questa lingua comune. Diversamente, esso non è che una proposizione-imposizione personale, arbitraria e, appunto, indecorosa. Ne deriva che l’autorità di riferimento per valutare la liceità o meno di un manufatto non è il singolo proponente, ma la comunità tutta. Da questo punto di vista non ha alcun senso rimproverare alla gente comune, come spesso si fa, di “non capire” l’architettura e il design contemporanei.

Quindi, l’ornato non può che essere inserito a posteriori, una volta compiuta la progettazione del manufatto. Meglio ancora, esso è l’elemento finale messo in opera dopo che le problematiche relative alla funzione propria sono già state risolte. Anche in questo caso, virtù del decoratore è rendere il tutto fluido, apparentemente naturale. Ma è chiaro ancora una volta che è di artificio e non di spontaneità, di decoro e non di funzionalità, che si sta parlando. Ne deriva una dinamica di fondo riassumibile in questi termini: qualunque manufatto, anche se utilissimo, in sé e per sé è sempre indecoroso; per essere utilizzato nella vita civile dev’essere “abbellito” ed “attrezzato” con un ornato che gli sia consono.

Le operazioni di ornamento si stratificano nel tempo fino al limite in cui l’ornatus  prevale sul tema e, quindi, l’oggetto risulta indecoroso perché sovraccarico di abbellimenti non consoni. Avviene allora che si torni all’essenzialità del tema ripartendo da un ornatus consono, apparentemente naturale. Si pensi al Barocco che “degenera” nel Rococò, finché non subentra il Neoclassicismo, aprendo una nuova fase storica. Saturazione e diradamento ornatistico (Gotico-Rinascimento, Barocco-Neoclassicismo, Liberty-Razionalismo) si susseguono ciclicamente, ed anche la modernità le ha vissute. L’ornatistica essenziale della cromatura del tubo metallico si contrappone alla ridondanza dell’ultimo Liberty, ma a sua volta il tubo si piega, si contorce e si distorce arrivando agli estremi contemporanei, lontani da ogni logica “decorosamente” funzionalista.

A differenza che in passato, però, oggi il sistema delle arti è in un vicolo cieco, proprio perché, a suo tempo, si è fatta terra bruciata intorno ad ogni serio ragionamento sul decoro e sulla decorazione. Una volta gettato via il bambino con l’acqua sporca – come impone l’equazione loosiana ornamento=delitto – non ci si può certo aspettare che l’architettura e il design contemporanei riescano a risalire, nella ricerca delle proprie origini, oltre la banale funzione propria espressa dal tubo cromato. Ne consegue che i loro prodotti, condannati da un lato ad un’estetica che si può a buon diritto definire “del tubo”, impossibilitati dall’altro ad accedere alle categorie del “consono ornato”, risultano irrimediabilmente obsoleti.

〈1〉 Vedi G. Dorfles, Introduzione al disegno industriale, Torino, Einaudi, 2001 (ed. or. 1963; 1 ed. Einaudi 1972), in particolare alle pp. 83-84.

〈2〉 Per questa descrizione tecnica vedi Ibidem, didascalia alle immagini 2-4.

〈3〉 Vedi G. Dorfles, Le oscillazioni del gusto. L'arte d'oggi tra tecnocrazia e consumismo, Milano, Skira, 2009 (ed. or. 1970).

〈4〉 Per un'introduzione generale sul tema vedi M.P. Ellero, Introduzione alla retorica, Firenze, Sansoni, 1997.

In alto: Guido Andlovitz, Centrotavola, 1938, ceramica, cm. 11,7 x 30,7 x 11,2, Laveno Mombello, Museo Internazionale del Design Ceramico (www.lombardiabeniculturali.it). Sotto: le edizioni 1963 (Bologna, Cappelli, con titolo originale) e 1972 (Torino, Einaudi, con titolo definitivo) del libro "Introduzione al disegno industriale" di Gillo Dorfles.

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