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Arcaico o arcano? Captare i segnali della decorazione geometrica

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Quando nascono le tecniche artistiche? Che forme si danno, iconiche o aniconiche? Vengono prima queste o quelle? Il brano del libro dello studioso ed ecclesiastico seicentesco Giovanni Ciampini riprodotto in questo numero di FD 〈1〉, esemplifica molto bene la logica con cui la storia dell’arte di tutte le epoche indaga il tema delle origini: da un lato cercando di risalire sempre più indietro nella ricerca delle fonti e delle testimonianze; dall’altro interpretando queste stesse fonti e testimonianze, com’è inevitabile che sia, con un occhio di riguardo per l’oggi, per la propria situazione contingente. In questo doppio movimento, e nei corti circuiti che si innescano fra passato e presente, stanno le motivazioni che spingono gli storici a scegliere l’una o l’altra domanda, a preferire questa o quella risposta.

Nel suo discorso sulle origini del mosaico, Ciampini si sofferma sulle due tecniche dell’opus tessellatum e dell’opus sectile, che rispetto ad un mosaico “normale”, a minuscole tessere di forma cubica o parallelepipeda, comportano l’uso di elementi più grandi, di forma variabile, o associati in funzione degli spazi che devono occupare nella composizione. E’ su questa variabilità delle pezzature, su queste grossolanità e anomalie del procedimento tecnico, che l’autore fonda la sua convinzione che tessellatum e sectile siano le due forme più arcaiche di mosaico, quelle le cui origini si perdono nella notte dei tempi: «Si può dunque ragionevolmente supporre che gli antichi abbiano inventato il vero e proprio mosaico dopo il tessellatum e il sectile: giacché è destino di ogni arte, quale essa sia, assurgere ai più alti fasti muovendo da origini umilissime» 〈2〉.

Il ragionamento di Ciampini è corretto, formulato com’è da un uomo abituato a confrontarsi, nelle sue frequenti ispezioni dell’immenso patrimonio romano, paleocristiano e medievale sparso nei territori dello Stato della Chiesa, con i reperti di un’antichità vera e concreta: insomma un degno contemporaneo di Athanasius Kircher, ma anche di Cartesio e di Spinoza. E tuttavia, nel momento in cui la tecnica e l’arte del mosaico chiamano in causa la tecnica e l’arte della decorazione (e non è detto che le due cose debbano sempre coincidere), alcuni “distinguo” sono utili per capire ciò di cui Ciampini sta parlando.

Se parliamo di opus sectile, la sua connotazione arcaizzante è fuor di dubbio. Si tratta di un modo semplificante, al tempo stesso schematico e vivacemente espressivo, di fare mosaico. I vari segmenti marmorei vengono sagomati uno ad uno, l’uno in funzione dell’altro, procedendo per accostamenti e congiungimenti che via via fanno risaltare al meglio quella macchia cromatica, quell’andamento lineare, esaltandosi nella bidimensionalità e riconducendo tutto ad essa. E tanto più quando si ha a che fare con elementi narrativi, spaziali, paesistici, propri di una figurazione di tipo naturalistico. In condizioni storiche molto mutate rispetto all’antichità greca e romana, è di fatto ancora opus sectile il modo in cui molto mosaico novecentesco riunisce, a formare textures ora iconiche ora aniconiche, materiali eterogenei come frammenti litici, smalti, vetri, ceramiche. Su tutti i possibili esempi spicca, per il livello inventivo altissimo e pressoché irripetibile, il trencadís di derivazione moresca con cui Antoni Gaudì fece incrostare ampie porzioni delle sua creazioni architettoniche a Barcellona, dal Parco Güell alle case Milà e Batlló alla Sagrada Familia.

Dettaglio della decorazione a trencadis pensata da Antoni Gaudì per il Parc Güell di Barcellona.

Ma se veniamo all’opus tessellatum, ci accorgiamo subito che le variabilità e anomalie tecniche di cui si diceva all’inizio, in questo caso sono più apparenti che reali, anzi, non sono affatto. Quando si è in presenza di forme geometriche stabili come quelle che lo stesso Ciampini elenca quando parla di «[…] quadrato, di rettangolo, di triangolo, di sezione di cono o di sfera o invece circolare, di pentagono, di esagono, di ottagono e di altre figure geometriche […]» 〈3〉, è evidente che si deve presupporre l’esistenza di una griglia geometrica regolare in cui tali forme possano iscriversi e interagire. Altrimenti le forme suddette non potrebbero mai “tassellare” (cioè ricoprire completamente, senza lasciare spazi vuoti) lo spazio su cui si adagiano. Ed è altrettanto evidente che qualunque accadimento intervenga nella forma o nel colore dei tasselli, non si tratterà di cosa accidentale o imprevista, ma di un effetto accuratamente programmato e distribuito su tutta l’estensione della griglia, in tutte le spire, gli intrecci e i diversivi che essa contiene. Che poi ciascun effetto possa sembrare in certa misura inspiegabile, strano, sorprendente, non sarà un frutto del caso, ma semmai della suprema abilità e capacità di dissimulazione di chi ha ideato il tutto.

Ora, quando si richiedono capacità di questo genere, quando si ricercano simili effetti dovendone prevedere e quantificare le ricadute sull’intera griglia, non è la tecnica musiva in quanto tale ad essere chiamata in causa, anche se è ovvio che il mosaicista chiamato a eseguire un disegno con quelle caratteristiche dovrà essere tecnicamente molto ferrato. Ad essere chiamata in causa è invece la tecnica compositiva, quella cioè che attiene al disegno decorativo, al pattern fatto di linee che si intersecano formando angoli regolari, figure dritte e rovesciate, scambi sistematici tra figura e sfondo, pieno e vuoto. Senza avere il controllo, intellettuale prima che esecutivo, di questo palinsesto geometrico, non si va lontano. Che poi entrambe le competenze, intellettuale da un lato ed esecutiva dall’altro, possano coesistere in una sola figura, non è da escludere: e allora si tratterà certamente di un Maestro, nell’accezione che la parola riveste quando arte ed artigianato sono dimensioni davvero interconnesse.

Mosaico pavimentale con motivo a quinconce, sec. XIII, Chiesa dei Santi Quattro Coronati, Roma.

Solo presupponendo processi inventivi raffinatissimi, tutt’altro che primitivi, possono nascere opere come gli spettacolari quinconce cosmateschi (sec. XIII) degli ambienti contigui di San Silvestro e dei Santi Quattro Coronati a Roma, citati con ammirazione dallo stesso Ciampini. E colpisce il fatto che egli li menzioni l’uno dopo l’altro, senza darsi la pena di rilevare la minima differenza esecutiva o di conservazione. Non sarà il segno che, anche per lui, il motivo più profondo di ammirazione consiste non tanto nella qualità tecnico-esecutiva dei due pavimenti, quanto nella comune, sublime composizione geometrica che entrambi hanno alle spalle? Insomma, più che “arcaici” questi capolavori di tessellatum risultano “arcani”, potentemente misteriosi. Ed ecco che Ciampini si guarda bene dall’entrare nel merito della tecnica con la quale sono stati disegnati, interessandosi esclusivamente alla tecnica con la quale sono stati messi in opera.

Naturalmente, in questa rimozione Ciampini non è solo. Egli ha dalla sua un dato storico che, già dai tempi di Giorgio Vasari, sembra inoppugnabile: l’arte moderna ed evoluta è naturalistica, deputata cioè a riprodurre brani di realtà recitati da attori in carne ed ossa e in scenari abitabili. Essa si attiene al fondamentale precetto oraziano ed umanistico dell’ut pictura poesis, cioè dell’affratellamento tra pittura e letteratura, nel comune intento di raccontare vicende che si svolgono nel tempo e nello spazio. Ne consegue che tutto ciò che non si conforma al criterio naturalistico-mimetico è da considerarsi una preparazione, una premessa ancora acerba, oppure una sopravvivenza ambigua, marginale. L’immagine non-figurativa appartiene all’infanzia dell’umanità, e il sopravvenire dell’età adulta la fa apparire giocoforza superata, come i giochi del bambino appaiono ingenui di fronte alla seriosità delle occupazioni dell’età matura.

In questo clima culturale, il lavoro sulle geometrie e sull’ordine potrà essere considerato al più un esercizio di routine. L’arte più profonda e apportatrice di valori consiste semmai nel saper produrre rappresentazioni conformi al vero, “verosimiglianti” appunto. Ma i capolavori celati nei pavimenti, nei tappeti, negli arazzi, nelle suppellettili, continueranno a inviare il proprio segnale. Per quanto distorto esso possa giungere e per quanto difficoltosa possa risultarne la decodificazione.

〈1〉 Vedi, su questa stessa rivista, G. Ciampini, Opus tessellatum e opus sectile, 5 maggio 2015 (http://www.faredecorazione.it/?p=4823).

〈2〉 Così recita il testo originale latino: «Musiva itaque opera ab antiqui post tessellatum, ac sectile adinventa fuisse, non improbabili coniectura argui potest: ea siquidem esse solent artium quarumlibet fata, ut ab humillimo principio ad summum fastigium attollantur».

〈3〉 Il testo originale latino: «[...] Quadrilateri, Trianguli, Sectionis conicae, Sphericae, sive circularis, Pentagoni, Hexagoni, Octagoni, & aliarum geometricarum figurarum [...]».

In alto: particolare di mosaico pavimentale, sec. I d.C, Terme del Foro, Ercolano. Sotto: Mosaico pavimentale romano, sec. I d.C., Reggio Emilia, Civici Musei.

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