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I costumi nel film western

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di Antonio Chiattone

Nella consuetudine odierna, alla parola "ornamento" corrispondono significati che hanno a che fare con un elemento o una somma di elementi aggiunti a posteriori, a scopo di generico abbellimento e dunque implicitamente superflui. Ben diversa era la percezione in antico: l'ornamentum latino è in prima battuta "equipaggiamento", "armatura", "attrezzatura", "bardatura" e solo in seconda battuta "abbellimento", "gioiello" o, in senso figurato, "onore", "lustro", "segno di distinzione", "titolo onorifico". Esisteva poi un'ulteriore accezione di ornamentum, che indicava costumi e apparati usati a teatro o nelle cerimonie. Dunque l'idea generale di ornamento non separava mai gli aspetti legati alla funzionalità pratica, spesso primaria (come nel caso delle armi, delle armature e delle briglie per condurre i cavalli), da quelli pertinenti alla dignità estetica degli oggetti. Di pari passo procedeva l'idea di decor ("decoro"). In epoca contemporanea, questo ventaglio di significati si ritrova in numerose situazioni, dal design alla moda allo spettacolo, in cui identità e riconoscibilità restano decisivi per una comprensione immediata del contesto ambientale e narrativo. Il cinema, e tanto più il cinema di genere, in cui i personaggi richiedono una definizione precisa e facilmente memorizzabile, ne è un esempio. Dal libro Il film western, pubblicato nel 1949 da un pioniere della critica cinematografica italiana, il milanese Antonio Chiattone (1904-1957), riproponiamo qui il capitolo intitolato "Il costume". Antonio Chiattone discendeva da una famiglia di illustri artisti originari di Lugano: era nipote degli scultori Antonio (1856-1904) e Giuseppe (1863-1954), figlio del tipografo, litografo e cartellonista Gabriele (1853-1934), e fratello di Mario (1891-1957), architetto e pittore. La cultura figurativa e decorativa di Chiattone balza subito all'occhio leggendo le sue considerazioni sull'abbigliamento nel cinema western. Egli concepisce la scena cinematografica come un quadro in movimento, e utilizza le parole "decorazione" e "ornamento" in modo molto pertinente, per individuare gli elementi fisionomici e ritmici che scandiscono la vicenda nello spazio e nel tempo. Il lessico e l'informazione storica di Chiattone sono oggi superati, ma non pregiudicano l'efficacia della sua analisi. Egli si concentra infatti su una serie di convenzioni figurative che, come avviene in altri linguaggi, dal teatro al fumetto, privilegiano la riconoscibilità e la continuità drammatica, anche a costo di qualche licenza. Vedi A. Chiattone, Il film western, Poligono, Milano 1949, pp. 107-114. Le note al testo e la scelta delle immagini sono redazionali. 

È noto che il costume, il trucco e l’illuminazione sono, nel cinema, elementi che completano l’illusione creata dal racconto. Alle origini della cinematografia (nel nostro caso, del western) il costume non aveva certamente tutta l’importanza che ha raggiunto ai nostri giorni per colpa o per merito di qualche regista o di qualche attore che, dando al costume un grande rilievo, ha creduto di animare questo genere di spettacolo e di renderlo più interessante. Se noi oggi rimpiangiamo i vecchi film e accusiamo di queste inutili migliorie per esempio George O’Brien che ha voluto far diventare i suoi western quasi dei documentari (sebbene il documentario sia una forma di cinema tra le più pure), dovremmo forse invece già accusarne Broncho Billy, che voleva per i suoi western la frase di presentazione: “il film in cui tutto è vero”; tutto, s’intende, escluse le sue cavalcate, perché pare che egli si facesse prudentemente sostituire da uno stunt-man. Io credo che tra le prime cose a cui Broncho Billy avrà pensato, sarà stato il costume.

Forse le grandi cure che si sono avute per il costume nel film western, sono strettamente legate al continuo perfezionamento della macchina da presa, che oggi è in grado di cogliere ogni minimo particolare, con una facilità impossibile agli inizi del cinema. Probabilmente il costume, nei primitivi film d’avventura, era accurato ed esatto, nella linea generale, quanto l’attuale, ma era trascurato nei particolari, ritenuti superflui. Oggi sono sparite certe camicie a larghi quadri, che dovevano da sole a prima vista trasportare lo spettatore nelle sconfinate praterie. Colpa degli attori, dei registi, del costumista, dell’obbiettivo? Forse la colpa va data alla moda, che anche nel West ha portato la sua parola.

In un film western di cui sia indicata nella didascalia l’epoca dell’azione negli anni dal 1850 al 1870, troveremo ancora le caratteristiche camicie a quadri, i panciotti di peluche dai vistosi disegni a fiori e ad arabeschi, il cilindro, caratteristica dello sceriffo di allora, divenuto poi nel cinema un elemento “convenzionale” per far capire a prima vista che lo sceriffo apparteneva alla banda dei “cattivi”. Sarebbe inutile guardare certe stramberie e caratteristiche della moda della metà del secolo scorso in film ambientati in epoche anche più vicine a noi.

George O’Brien e Madge Bellamy in un’inquadratura di “The Iron Horse”, 1924, regia di John Ford.

Però bisognerebbe sapere cos’era all’origine il film western: Bardèche e Brasillach, nella loro Histoire du cinéma, parlano addirittura di lotta con belve feroci! (op. cit., pag. 59) 〈1〉. Cerchiamo almeno di definire esattamente cos’è il costume del West.

Esso è un miscuglio tra il costume locale dei pellirossa e quello europeo adattato a certe esigenze pratiche; la moda giunge nel west con notevole ritardo, anche se la ferrovia fin dalla seconda metà del secolo scorso ha abbreviato le distanze.

Le donne dei pionieri dovevano svolgere una vita quasi virile. Gli attacchi dei pellirossa, dei fuorilegge, dei banditi non permettevano una vita oziosa e difficilmente esse avrebbero potuto trovare il tempo per lo specchio e per i capricci della moda. Vien così da pensare che la crinolina, che fa la sua timida apparizione in Europa verso il 1845, sia stata importata in California con la scoperta dell’oro avvenuta nel 1848, ma che non vi abbia mai raggiunto quelle eccessive dimensioni che si videro nel nostro ambiente verso il 1860.

Forse le donne, nel West, ottenevano la ricchezza della sottana dei loro abiti con pieghe e arricciature e non con la gabbia di crine (crinolina) o di ferro, certamente non creata per dare libertà ai movimenti; così pure la tournure, aggeggi bellissimi, fatti per un incedere imponente e quasi regale, calmo, maestoso, ma non certamente adatti per correre, camminare speditamente e cavalcare; movimenti, questi, che rendevano comiche senz’altro le due trovate della moda.

Mary Mersch e William Farnum in un’inquadratura di ” Riders of the Purple Sage”, 1918, regia di Frank Lloyd.

Chissà quanti altri elementi nella moda della seconda metà del secolo scorso (i burnous, i jockeys, la giacca “alla zuava” con le caratteristiche maniche) sono stati trasformati nel West e adattati alle esigenze di una vita esclusivamente pratica, tanto da essere difficilmente riconoscibili.

È ovvio, poi, che se la moda maschile accoppiò elementi indigeni (pellirossa e mori) a qualche elemento giapponese, anche quella femminile, proveniente da Parigi, avrà subito aggiunte di fantasia tratte dai costumi locali, tanto da creare un gusto a sé, e forse un costume. Non mi fermerò a un esame analitico sui vari costumi dei pellirossa, diversissimi tra di loro, e sulla loro affinità, in molte caratteristiche particolari, con l’arte decorativa orientale, specialmente giapponese e cinese. Notiamo solo che nel costume pellirossa, di frequente il centro della decorazione è spostato sul dorso, come nel costume giapponese.

Un magnifico esempio di ricostruzione del costume era la giacca che indossava il protagonista nell’Iron Horse di Ford 〈2〉; la decorazione era appunto sulla schiena e riproduceva un motivo tipico e inconfondibile rivelando subito che l’eroe aveva avuto contatti con i pellirossa.

Di fronte a questo miscuglio di elementi decorativi e di elementi razionali, vien da pensare alla fatica dei figurinisti creatori dei costumi per i film western. È vero che a Hollywood non mancano documenti, fotografie e disegni, musei del costume, ma non bisogna dimenticare che, pur volendo essere esattamente veristi, occorre lasciare che l’eroe rimanga eroe anche ideale, e sappia far convergere tutti gli sguardi su di lui. Non sempre il pubblico nota il protagonista, per il suo stile; se ai bambini interessa soprattutto che vinca sempre e che al momento giusto sappia vendicarsi del rivale con un pugno eccezionale, la massa vuole che l’eroe, più che un ottimo attore, sia un uomo dotato di un certo fascino; perché più tardi sarà preso in esame dagli studiosi del gesto, che sezioneranno in mille particolari il complesso del suo movimento.

Tom Mix e Mabel Ballin in un manifesto pubblicitario di “Riders of the Purple Sage”, 1925, regia di Lynn Reynolds.

Il costume può anche migliorare il fisico di un attore e aggiungervi infiniti elementi di simpatia; il costumista, però, può facilmente indulgere all’appesantimento del fisico dell’attore. Di solito i cowboys dello schermo, forse per il genere del film che li obbliga a continui sforzi fisici, sono robustissimi; bisogna così evitare qualsiasi linea, qualsiasi decorazione che possa rendere tozzo l’eroe.  Ci piacerebbe poter oggi, per esempio, confrontare i costumi per uno stesso personaggio, in una diversa edizione, conoscendone l’autore o l’autrice, che potrebbe poi essere l’attore stesso.

Invece questo confronto fatto a titolo di studio deve basarsi per lo più sull’anonimo. Pensiamo per esempio al personaggio di Lassiter, per il film Riders of the Purple Sage di cui furon fatte diverse edizioni, e di cui abbiamo potuto avere scarso materiale informativo, specie per le prime due. Sappiamo solo che la prima edizione (di produzione Fox) aveva quale interprete Tom Mix, e fu presentata in Italia sotto il titolo Il segreto dell’abisso; la seconda di cui ci sfugge la traduzione italiana del titolo, aveva Buck Jones quale protagonista; la terza (1930), che in Italia si intitolò L’amazzone mascherata, era diretta da Hamilton MacFadden e interpretata da George O’Brien; nell’ultima, diretta nel 1941 da James Tinling, appariva George Montgomery 〈3〉.

Confrontiamo i costumi delle due ultime edizioni, specialmente l’abito che indossa il protagonista Lassiter quando entra in scena la prima volta. Egli vien presentato, come nel romanzo, al momento in cui entra nel ranch di James Whitersteen, mentre i seguaci di Oldring stanno per frustare Venters; e, come precisa l’autore della storia, indossa un abito nero, con il sombrero nero 〈4〉.

George O’Brien, Marguerite Churchill e James Todd in una locandina di “Riders of the Purple Sage”, 1931, regia di Hamilton MacFadden.

Il costumista ignoto che ha disegnato il costume per Lassiter-O’Brien, pur rispettando la serietà di stile imposta dal nero obbligatorio, ha ideato un’allacciatura della camicia originale, fatta con cinturini di cuoio; ha curato poi l’esecuzione di un punto a cordoncino che disegna lo sparato della camicia e la distingue dalle camicie dozzinali.

Invece Herschel, il nuovo costumista della Fox, ha fatto pochissimi sforzi per ideare la camicia di Lassiter-Montgomery: è una comunissima camicia come ce n’è in qualsiasi parte del mondo. Ha avuto invece una vera trovata mettendo al collo di Lassiter un sottilissimo e lungo fazzoletto  di tessuto leggero, nero come d’obbligo. Nel film questo particolare diventava un elemento importantissimo, sembrava fatto apposta per sottolineare la lunghezza e l’elasticità delle membra dell’attore. Non vogliamo attribuire allo stesso costumista la cintura e la bandoliera, sapendo che generalmente questi oggetti sono di proprietà degli attori e restano gli stessi in tutti i film. Il sombrero, sia quello di O’Brien che quello di Montgomery, non è studiato strettamente secondo il costume locale; tuttavia l’uno è diverso dall’altro, intonato alle linee del viso dell’attore. Va pure notato che mentra Lassiter-O’Brien portava in tutto il film lo stesso costume, Herschel na ha disegnato per il suo Lassiter-Montgomery più di uno, non fondamentalmente in nero. Persino il sombrero scuro fu sostituito nel finale da uno chiarissimo, quasi bianco, e venne così a mancare una caratteristica tipica del personaggio, che doveva avere quelche cosa di “misterioso” oltre la precisa interpretazione del testo. Questi esempi dimostrano come i cowboys dello schermo, apparentemente tutti uguali anche nell’abito, siano invece diversi fra loro in tutto ciò che può caratterizzarli.

La moda maschile ne West non deve aver subito grandi variazioni dalla scoperta dell’oro (1848) ai nostri giorni, poiché sarà sempre adattata alle esigenze pratiche. L’abito maschile si riduce ai pantaloni e alla camicia, la giacca è usata solo nelle grandi occasioni, come indumento elegante che riflette la moda parigina; anzi, nei primi anni ricorda piuttosto la foggia d’abito dei pionieri. Spesso la giacca è sostituita dalla camicia (in lana o in pelle), che richiama il costume pellirossa nel taglio, con decorazioni di due opposte tendenze: o quella pellirossa, con influenze orientali, o quella messicana, con influenze spagnole. Gli studiosi, del resto, sostengono essere gli americani non altro che un popolo asiatico emigrato in America attraverso lo stretto di Bering. Basterebbe osservare come la croce uncinata, tipico motivo orientale, appaia nelle decorazioni degli abiti dei cowboy; talvolta il gilet, a forma di bolero, mostra invece l’origine spagnola. Ma dove appare meglio l’influenza della Spagna è in una tipica abitudine del cowboy  identica a quella del “caballero”: tutto l’interesse, tutta la bellezza della decorazione è riservata alla sella, alle armi. Conosciamo delle selle con finissime incrostazioni d’argento; si trovano speroni minutamente cesellati, rivoltelle il cui calcio è un capolavoro di arte orafa, sempre avvicinabile all’arte orientale.

Kane Richmond, George Montgomery e Mary Howard in un’inquadratura di “Riders of the Purple Sage”, 1941, regia di James Tinling.

All’equipaggiamento del cavallo vien dedicata una cura maggiore che a quello del cavaliere. Nessun materiale è abbastanza sontuoso: splendidi velluti color cremisi o scintillanti in delicatissimi azzurri ricamati in argento e oro furono ritrovati nel Messico, e mostravano evidentissima la loro origine spagnola; spesso la sella, di proporzioni ridottissime, è un vero gioiello per il lavoro di oreficeria che la decora. Anche qui, senza dubbio, la Spagna è presente.

Talvolta, vicino a preziose e ricercate decorazioni di puro stile Rinascimento spagnolo (diciassettesimo secolo) troviamo elementi decorativi e oggetti d’uso funzionali, di pura provenienza pellirossa con richiami all’arte decorativa orientale; è sempre dunque un circolo chiuso.

Tutti gli elementi decorativi del costume western che abbiamo ricordato, sia nel colore (rosso, azzurro, oro), sia nella preziosità della fattura, non eran però valorizzati nel film in bianco e nero. Quello che andava perduto come festa di colore, come variazione, come esaltazione di quella vita era tuttavia compensato da una composizione “superiore”, da immagini surreali e magiche. Più tardi l’uso del colore permetterà di sfruttare ogni elemento; e ricordiamo certe cinture, certe selle di Tom Mix, dove apparivano le combinazioni del gusto personale dell’attore (Tom Mix ha sempre voluto che sulla sella, sulla bandoliera, sulla camicia apparissero le sue iniziali T.M., anche quando gli sarebbe stato possibile servirsi del nome del personaggio) con quello comune nella decorazione tipica spagnola di rosacee. La cintura di Gene Autry, di gusto liberty, porta invece le iniziali esatte, perché, come s’è detto, Gene Autry nel film si chiama sempre Gene Autry. Sulla sua falsariga, e attraverso il costume mantenendo sempre quel tipo, è pure tracciato il cowboy di Roy Rogers, che nel racconto cinematografico rimane Roy Rogers. Salvo il disegno ricercato delle sue varie coloratissime camicie, non meritano nessuna citazione gli accessori del suo costume.

Fotografia pubblicitaria dell’attore-cantante Roy Rogers e del suo cavallo Trigger, 1945 circa.

A questo punto viene spontanea la domanda: chi sono i costumisti di Hollywood per i film western? Si tratta di film che per quanto essenzialmente cinematografici rivestono minore importanza degli altri nella vastissima produzione mondiale, eppure essi sono serviti alla preparazione e al lancio di abili registi e di ottimi attori, e talvolta, viceversa, registi e attori giunti all’apogeo della loro carriera hanno creato nuovi western.

Dai press sheets difficilmente si riesce a rintracciare il costumista. Perché non pensare che il costumista abbia esclusivamente disegnati i costumi delle masse, elemento che più d’ogni altro riesce a creare uno stile, a dare l’idea di un’epoca e a indicare una posizione geografica? Dalle nostre ricerche abbiamo trovato i seguenti nomi di costumisti o direttori della sezione costume:

R.K.O.
Wardrobe Designers: Renie e Edward Stevenson
Wardrobe Manager: Claire Cramer

Republic
Make-up: Bob Mark

20th Century Fox
Manager Wardrobe Department: Charles Le Maire

Universal
Fashion Designer: Travis Banton

Columbia
Wardrobe Department: Ray Howell
Fashion Designer: Jean Louis

M.G.M.
Designer: Irene
Wardrobe: Sam Kress

Siamo però certi che questi costumisti pensano a tutto il complesso del costume, per le varie sezioni del film: per i film western essi penseranno alle masse, senza concedere al protagonista una particolare attenzione.

Analizziamo ora, prima di concludere il capitolo, il costume dell’ultimo film di John Ford, Fort Apache, che si svolge attorno al 1870 〈5〉. Due sono i costumisti cha hanno lavorato al film: Anne Peck per i costumi femminili e Michael Meyers per quelli maschili. Essi hanno fedelmente ricostruito l’epoca, contribuendo a rendere più “documentario” il film, a farne un’opera “vera” cui veramente si può credere.

Shirley Temple, John Wayne e Henry Fonda in un’inquadratura di “Fort Apache”, 1948, regia di John Ford.

Ai loro due nomi va aggiunto quello di D.R.O. Hatswell incaricato della ricerca dei costumi (Costume research). Noi pensiamo che a Hatswell sarà stato affidato il compito di “ricercare” i costumi originali attraverso le fotografie e i modelli dei musei.

È fuori discussione che la collaborazione di queste tre persone ha portato a realizzare quelli che sono forse i migliori costumi storici della cinematografia. Qui non solo dovevano fondersi col personaggio e crearne un “tipo”, ma dovevano esser creduti veri, come se l’obbiettivo avesse potuto portarsi in quel tempo e tramandarci un episodio di quelle guerre e di quegli uomini.

I costumi militari maschili, confrontati coi documenti del tempo, ci sembrano fedeli: solo manca quel senso di comico che emanano tutte le vecchie fotografie. Pensiamo però che se anche in tutto il film, e per la prima volta, Ford ha inserito un certo “umorismo”, proprio il regista ha voluto, anzi ha insistito perché i suoi personaggi apparissero ai nostri occhi “eroi”, come apparvero ai loro contemporanei.

Per sottili sfumature differiscono due registi come John Ford e René Clair! Mai gli eroi di Ford sono comici o suscitano il sorriso; e mai i personaggi di Clair ci appaiono seri, e tantomeno incutono rispetto. Però, nel loro profondo, quelli di Ford essendo veramente buoni (ad eccezione del “cattivo”, e del colonnello di Fort Apache), presentano molti lati cui è possibile la nota umoristica. Mentre quelli di Clair apparentemente comici (per es. Jacques-Francois Périer in Le silence est d’or 〈6〉, nella scena della partenza in carrozza per il servizio militare), analizzati sono figure di cui non si può assolutamente ridere.

Quanto ai costumi femminili di Fort Apache, non ci è dato vederli nei loro particolari. Nel film appare soltanto la massa delle ampie gonne, le quali servono per creare volumi composti di varie tonalità di grigi. La rigorosità della documentazione risulta però dalle fotografie, e là noi possiamo constatare la diligente cura di Anne Peck, fedelissima esecutrice.

〈1〉 M. Bardèche, R. Brasillach, Histoire du cinéma, Denoël et Steele, Paris 1935.

〈2〉 The Iron Horse (Il cavallo d'acciaio), 1924, regia di John Ford.

〈3〉 La cronologia accertata delle quattro versioni di Riders of the Purple Sage: 1918, regia di Frank Lloyd, con William Farnum; 1925 (edizione italiana Il segreto dell'abisso), regia di Lynn Reynolds, con Tom Mix; 1931 (edizione italiana L'amazzone mascherata), regia di Hamilton MacFadden, con George O'Brien; 1941, regia di James Tinling, con George Montgomery. Manca all'elenco di Chiattone il film del 1918, mentre non si ha notizia di quello interpretato da Buck Jones.

〈4〉 Le sceneggiature di Riders of the Purple Sage sono tratte dall'omonimo romanzo (1912) di Zane Grey. Per "sombrero" Chiattone intende genericamente il cappello a tesa larga.

〈5〉 Fort Apache (Il massacro di Fort Apache), 1948, regia di John Ford.

〈6〉 Le silence est d'or, 1947, regia di René Clair.

Homepage: Justus D. Barnes nell'inquadratura finale di "The Great Train Robbery", 1903, regia di Edwin S. Porter.
Sotto: fotografia autografata di George O'Brien in "Riders of the Purple Sage", 1931, regia di Hamilton MacFadden.

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